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Detenzione domiciliare: la nozione di “assoluta impossibilità ad assistere i figli” da parte del coniuge deve essere intesa in senso ampio (Cass. Pen. Sez. I – 21966/18)

17 Mag 2018 - Sentenze

Detenzione domiciliare: la nozione di “assoluta impossibilità ad assistere i figli” da parte del coniuge deve essere intesa in senso ampio (Cass. Pen. Sez. I – 21966/18)

Nel giudizio per l’applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter, lett b) ord. pen., ovverosia per decesso o assoluta impossibilità per il coniuge di dare assistenza alla prole, la valutazione dell’ “assoluta impossibilità” non può essere limitata a casi estremi e deve tener conto – in un’ottica di tutela del diritto, costituzionalmente protetto, all’assistenza dei figli – della necessità di garantire una tutela ampia dell’equilibrio psicofisico della prole.

 

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Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 19 dicembre 2017 – 17 maggio 2018, n. 21966

Presidente Mazzei – Relatore Renoldi

 

RITENUTO IN FATTO

 

1. Con ordinanza emessa in data 16/05/2017, il Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria aveva rigettato, nei confronti di R.D., l’istanza di detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, lett. b) ord peniten.. Secondo i giudici di merito, la moglie del detenuto, A.A., ancorché affetta, alla stregua degli accertamenti peritali espletati, da “disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misto e disturbo dipendente di personalità”, sarebbe stata in grado, diversamente da quanto prospettato nella richiesta del beneficio, di gestire la prole di età minore, avuto riguardo alle adeguate competenze sociali palesate nello svolgimento dell’attività lavorativa. Sotto altro profilo, l’assenza di revisione critica manifestata dal condannato durante l’osservazione intramurali avrebbe rappresentato un negativo indicatore di prognosi criminale, sì da rendere probabile, in caso di applicazione della misura, la reiterazione di condotte di rilevanza penale.

2. Avverso il predetto provvedimento, ha proposto ricorso per cassazione lo stesso R. a mezzo del difensore fiduciario, deducendo, con un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. b), c) ed e), in relazione all’art. 125 cod. proc. pen., art. 31 Cost., art. 47-quinquies e art. 4-bis ord. penit..

Secondo il ricorrente, il tribunale di sorveglianza reggino non avrebbe valutato il pericolo concreto di una reiterazione delle condotte di reato, limitandosi ad una astratta considerazione della pericolosità sociale del ricorrente; e, inoltre, avrebbe illogicamente fondato il giudizio sulla capacità della moglie del detenuto di prendersi cura della prole sulla circostanza che costei svolgesse attività lavorativa, senza considerare le diverse abilità all’uopo occorrenti e senza confrontarsi con le deduzioni difensive circa la cessazione del menzionato impegno lavorativo a far data dal 2015.

3. In data 18/09/2017, il Procuratore generale presso questa Corte ha depositato in Cancelleria la propria requisitoria scritta, con la quale ha sollecitato l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria, sostanzialmente aderendo alle prospettazioni difensive articolare in sede di ricorso introduttivo

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Il ricorso è fondato.

2. L’art. 47-ter, comma 1, lett. b) ord. penit. – come modificato dapprima dalla L. 27 maggio 1998, n. 165, art. 4 e, da ultimo, dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 105, comma 1 – prevede la possibilità che sia concessa la detenzione domiciliare, in caso di pena detentiva anche residua non superiore ai quattro anni, nei confronti del condannato “padre, esercente la responsabilità genitoriale, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole”.

L’introduzione della disposizione in esame è stata conseguente alla pronuncia della sentenza n. 215 del 1990 della Corte costituzionale, che ha ravvisato una violazione dell’art. 31 Cost. e, dunque, della speciale protezione accordata all’infanzia, nella originaria impossibilità, per il detenuto padre di prole di età inferiore ai dieci anni, di offrire alla stessa un’adeguata assistenza nei casi in cui la madre sia a ciò impossibilitata.

Requisiti essenziali per l’accesso alta misura alternativa sono, dunque, accanto al ricordato limite di pena, l’esercizio da parte del detenuto della responsabilità genitoriale nei confronti della prole (onde evitare che la misura possa essere accordata in presenza di situazioni pregiudizievoli per la stessa) e la situazione di assoluta impossibilità della madre di fornire ai figli la necessaria assistenza morale e materiale.

3. La nozione di “assoluta impossibilità dell’assistenza” è generalmente interpretata in termini rigorosi dalla giurisprudenza di legittimità, chiamata a offrire una “interpretazione che tenga, da un lato, conto del necessario rigore imposto dalla eccezionalità della situazione e, dall’altro, dei diritti, costituzionalmente protetti, all’uguaglianza dei vari membri della famiglia, all’assistenza della prole, alla funzione rieducativa della pena” (così Sez. 1, n. 2183 del 15/05/1992, dep. 15/06/1992, P.M. in proc. Di Bella, Rv. 190625).

Uno degli ambiti in cui la giurisprudenza di questa Corte si è maggiormente confrontato è quello relativo all’impedimento alle ordinarie attività di assistenza derivante dalla prestazione di attività lavorativa da parte della moglie del detenuto. Con riferimento a tale problematica, si è ormai da tempo ritenuto che l’attività lavorativa da parte di una donna con prole infradecenne non determini, di per sè, quella condizione di assoluta impossibilità di prendersi cura della prole stessa, tale da giustificare, in favore del padre dei minori, la concessione della detenzione domiciliare (Sez. 1, n. 44910 del 28/10/2011, dep. 2/12/2011, Monti Condesnitt, Rv. 251480; Sez. 1, n. 13021 del 28/01/2009, dep. 25/03/2009, Parrino, Rv. 243550; Sez. 1, n. 849 del 16/02/1994, dep. 1/04/1994, Rossetti, Rv. 197003). E tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte ha fornito all’interprete una chiara prospettiva di lettura della norma affermando che “l’assoluta impossibilità della madre ad accudire la prole non può essere intesa in modo talmente rigido, da escludere la stessa applicazione del beneficio, nel senso di richiedere una difficoltà estrema, tale da superare le normali capacità reattive della persona, autonomamente considerata e nel contesto familiare” (Sez. 1, n. 1740 del 15/04/1994, dep. 18/05/1994, Borzachetli, Rv. 197630).

4. Nei caso di specie, peraltro, il tema dello svolgimento dell’attività lavorativa della moglie del detenuto non è venuto in rilievo sotto il profilo della sua idoneità a configurare, ex se, una situazione di “assoluto impedimento” all’assistenza della prole, quanto piuttosto quale indice di una capacità accuditiva che l’istante aveva revocato in dubbio alla stregua della riferita difficoltà della donna nel gestire le responsabilità genitoriali. In altri termini, il tribunale di sorveglianza ha affermato che dal momento che A.A. aveva lavorato, in passato, come parrucchiera ed estetista, dovesse conseguentemente ritenersi che ella fosse in possesso delle abilità necessarie a prendersi cura della prole.

Nondimeno, a parere di questo Collegio la motivazione offerta dal giudice a sostegno della sua decisione è inficiata da manifesta illogicità.

E’ pacifico che sia l’UEPE che gli stessi periti, dottori M. e C., abbiano riferito in ordine alle conclamate difficoltà della donna nel gestire le responsabilità genitoriali, anche in considerazione del quadro di “disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misto” e di “disturbo dipendente di personalità” che la affligge. Tuttavia, il Tribunale, compiendo una illogica omologazione tra attività ontologicamente diverse, quella lavorativa e quella di genitore, ha erroneamente ritenuto che il pregresso svolgimento di un’attività professionale potesse attestare anche delle adeguate capacità in ambito educativo e di cura della prole. Peraltro, anche a volere seguire il percorso argomentativi seguito dal tribunale, i giudici di merito non hanno tenuto in alcun conto il fatto che l’attività di lavoro era stata prestata nel passato, senza alcun riscontro in ordine alla attualità della situazione socio-personale della donna.

Sotto altro profilo, l’ordinanza impugnata ha fatto riferimento alla possibilità, per la A., di ricorrere all’aiuto di strutture di assistenza sociale, senza che però tale circostanza sia stata adeguatamente riscontrata, almeno stando alla lettera del provvedimento, ove genericamente si fa riferimento alla presenza, a (OMISSIS), del Centro di formazione cristiana (OMISSIS) (v. fg 2 dell’ordinanza impugnata), senza peraltro chiarire se e quali condizioni sarebbe stata possibile una effettiva presa in carico, da parte della struttura di accoglienza, dei componenti del nucleo familiare e, in particolare, dei minori.

4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accolto, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio al Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria, che dovrà esercitarsi, nel corso del nuovo esame del quale è investito, di un ulteriore sforzo motivazionale al fine di offrire compiuta risposta ai profili più sopra evidenziati.

 

PQM

 

annulla l’ordinanza impugnata e rinvio per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria.

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