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Associazione mafiosa delocalizzata: necessaria la prova di un concreto collegamento con il sodalizio “madre” ed il riscontro di moduli organizzativi comuni (Cass. Pen. sez. V – Sent. 18793/23)

24 Gen 2023 - Sentenze

Associazione mafiosa delocalizzata: necessaria la prova di un concreto collegamento con il sodalizio “madre” ed il riscontro di moduli organizzativi comuni (Cass. Pen. sez. V – Sent. 18793/23)

In tema di mafie delocalizzate – e con specifico riferimento ad ipotesi di insediamento di una locale di ‘ndrangheta in regione diversa da quella di origine – la prova dell’effettiva sussistenza della fattispecie associativa non può prescindere (in ragione delle peculiarità strutturali, organizzative ed operative che caratterizzano storicamente tale fenomeno criminale) dal riscontro di un collegamento funzionale con le componenti centrali ed originarie dell’associazione mafiosa, nonché dalla verifica della riproduzione sui territori delocalizzati dei moduli organizzativi ed operativi tipicamente utilizzati negli insediamenti originari.

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Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 gennaio 2023 – 4 maggio 2023, n. 19793

Presidente Zaza – Relatore Miccoli

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 19 luglio 2021 la Corte di appello di Torino ha parzialmente riformato la pronunzia di primo grado con la quale, per quanto qui di interesse, R.A., P.N., G.A., C.M. e S.M. erano stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 416 bis c.p. ( R., P. e G.), di concorso esterno nella stessa associazione ( S. e C.) e di scambio elettorale politico – mafioso ( R.).

1.1. Il reato di associazione (contestato al capo 1) afferisce alla “struttura delocalizzata e territoriale della ‘ndrangheta, denominata “locale”, operativa sul territorio di Aosta e zone limitrofe, caratterizzato dalla presenza di appartenenti alle ‘ndrine dei D.D., dei N., dei M. e dei R., con struttura organizzativa e ripartizione degli associati in ruoli di vertice (come quello di “capo locale”), ruoli subordinati (“picciotto”, “camorrista” e “sgarrista”), con regole interne e riti di affiliazione, associazione che si avvaleva della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivava, per commettere delitti e per acquisire, in modo diretto e indiretto, la gestione o comunque il controllo di attività economiche”.

Secondo l’ipotesi accusatoria:

“P.N., aveva il ruolo di partecipe, in quanto si metteva a disposizione di chi svolgeva ruoli e compiti direttivi ed organizzativi, come R.A. e D.D.M.F., partecipava alle discussioni ed alle dinamiche relative ai momenti essenziali per la vita dell’associazione, discuteva con gli esponenti di vertice del sodalizio in merito alla commissione dei reati fine, interveniva per risolvere i problemi di soggetti contigui al sodalizio, si recava in Calabria a portare informazioni ed “ambasciate” necessarie per la vita del sodalizio, entrava a far parte di una loggia massonica per incrementare la rete di relazioni e contatti con esponenti della società civile e consolidare la presenza su territorio, si candidava alle elezioni per il Consiglio Comunale di Aosta del maggio 2015 ove veniva eletto anche con i voti del sodalizio”; R.A., svolgeva ruoli di promozione, direzione ed organizzazione, in quanto interveniva a favore di soggetti contigui e vicini all’associazione che si trovavano in difficoltà con soggetti estranei alla compagine associativa, sovrintendeva e controllava il comportamento dei giovani calabresi residenti in (Omissis), decideva le strategie finalizzate a garantire l’appoggio elettorale ai candidati alle competizioni elettorali locali e regionali, controllava che i lavori nel settore dell’edilizia privata venissero assegnati alle ditte da loro indicate ed interveniva in prima persona per ottenere tale risultato, interveniva per condizionare l’azione di alcuni amministratori locali del Comune di Saint Pierre, entrava a far parte di una loggia massonica per incrementare la rete di relazioni e contatti con esponenti della società civile e consolidare la presenza su territorio, inviava ambasciate per conto di altri appartenenti al sodalizio, partecipava alla commissione di reati fine in materia elettorale”; ” G.A., aveva il ruolo di partecipe, in quanto si metteva a disposizione di chi svolgeva ruoli e compiti direttivi ed organizzativi, in particolare di D.D.F., eseguendo le direttive impartite da questi per la definizione delle vicende che coinvolgevano gli interessi dell’associazione, partecipava alle discussioni ed alle dinamiche relative ai momenti essenziali per la vita dell’associazione, recapitava informazioni ed “ambasciate” per conto e su richiesta di D.D.M.F.”.

La contestazione è stata così formulata quanto al luogo e alla data di commissione del reato: “In Aosta, a partire quantomeno dal gennaio 2014 per tutti gli indagati e reato ancora in corso”.

1.2. A C.M. è stato ascritto il reato di cui al capo 2), “perché concorreva nell’associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta contestata al capo 1)- in particolare, al “locale” di Aosta- consentendo alla predetta associazione – nei cui confronti manteneva una posizione di autonomia, agendo per tornaconto personale e tuttavia con la consapevolezza di contribuire così alla permanenza ed al consolidamento del sodalizio criminoso- di conseguire le sue finalità e di acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di concessioni, appalti o attività economiche. In particolare, dopo aver ricevuto, in occasione delle elezioni per il Consiglio comunale di (Omissis), svoltesi il (Omissis), l’appoggio elettorale da parte di D.D.M.F. in qualità di esponente di vertice dell’associazione di tipo mafioso descritta al capo 1), dopo essere stata eletta consigliere comunale ed essere stata nominata Assessore alla Programmazione Finanze e Patrimonio del predetto Comune: -Si rivolgeva a D.D.M.F., R.A. e P.N., appartenenti all’associazione di cui al capo 1), chiedendo loro di intervenire con metodo intimidatorio per comporre le tensioni ed i contrasti che aveva con altri Assessori alla Giunta del Comune di Saint Pierre e, in particolare, con F.F.; -Si rivolgeva a D.D.M.F. e R.A., appartenenti all’associazione di cui al capo 1), chiedendo loro di incontrare il Sindaco del Comune di (Omissis) per comporre le tensioni ed i contrasti che aveva con gli altri componenti della Giunta Comunale; -Comunicava a D.D.M.F., R.A. e A.S. che gli Assessori F. e L.M.J. erano intenzionati a non rinnovare il contratto di affidamento diretto per il servizio di trasporto scolastico alla ditta “Passenger Transport” di A.S., cognato di R.A., la cui scadenza era prevista per il mese di giugno 2016, e li teneva costantemente informati sulle intenzioni degli altri componenti della Giunta Comunale, comunicando loro notizie in merito alle determinazioni che la Giunta Comunale stava discutendo. In Aosta, dal mese di maggio 2015, reato ancora in corso.”.

1.3. A S.M. il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa è stato ascritto (capo 4) “perché…. dopo aver ricevuto, in occasione delle elezioni per il Consiglio comunale di Aosta svoltesi il (Omissis), l’appoggio elettorale di R.A. in qualità di esponente di vertice dell’associazione di tipo mafioso descritta al capo 1), dopo essere stato eletto consigliere comunale ed essere stato nominato Assessore alle politiche sociali del predetto Comune: teneva costantemente informato R.A., esponente di vertice dell’associazione di cui al capo 1), di quanto accadeva all’interno della Giunta Comunale di Aosta, e, in particolare, delle delibere e delle decisioni oggetto di discussione, dando corso e seguito ai suggerimenti ed alle indicazioni che R.A. gli comunicava; – interveniva su richiesta di R.A., esponente di vertice dell’associazione di cui al capo 1), per risolvere problemi di varia natura (in materia di lavoro e di rapporti con l’azione amministrativa del Comune) che gli appartenenti alia comunità calabrese residenti in (Omissis) prospettavano allo stesso R.A.; – si rivolgeva a R.A., esponente di vertice dell’associazione di cui al capo 1), dando seguito ai suggerimenti ed ai consigli che R. gli dava per la soluzione del problema sorto per l’uso degli spazi espositivi tra gli artigiani calabresi interessati ad esporre i propri prodotti ad Aosta in occasione della (Omissis) del 2017 e gli enti locali valdostani; – si rivolgeva a R.A., esponente di vertice dell’associazione di cui al capo 1), per gestire le tensioni ed i conflitti sorti all’interno della Giunta Comunale e della maggioranza in Consiglio Comunale in occasione della donazione di alcuni mobili ed arredi donati dallo stesso S. al comune di (Omissis). In (Omissis), reato ancora in corso”.

Le imputazioni relative alle condotte di cui all’art. 416 ter c.p., commi 1 e 2 ascritte al R. (capi 3, 28 e 29) sono attinenti proprio ai rapporti intercorsi tra questi, C. e S..

1.4. La Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’appello del Procuratore della Repubblica di Torino; ha assolto S.M. dal reato di cui al capo 4) perché il fatto non sussiste, revocando le statuizioni civili a carico dello stesso e ordinando la sua liberazione se non detenuto per altra causa; ha assolto R.A. dai reati di cui ai capi 3) e 29) perché il fatto non sussiste e, riqualificato il delitto di cui al capo 1) in quello di cui all’art. 416 bis c.p., comma 2, rideterminando la pena in anni 10 di reclusione; ha riconosciuto le attenuanti generiche all’imputata C.M., rideterminando la pena inflitta in anni sette di reclusione; ha riconosciuto le attenuanti generiche agli imputati G.A. e P.N., rideterminando la pena inflitta in anni otto di reclusione; ha revocato le liquidazioni dei danni riconosciute alle parti civili costituite Regione Autonoma (Omissis), Comune di Aosta, Comune di (Omissis) e Associazione Libera, rimettendo la relativa determinazione al competente giudice civile; ha riconosciuto in favore delle parti civili le provvisionali, ponendole, in solido tra loro, a carico degli imputati condannati e statuendo sulle conseguenti spese in favore delle stesse parti civili.

2. Avverso la suindicata sentenza ha proposto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino.

2.1. Con il primo motivo denunzia vizi motivazionali in riferimento all’assoluzione di S.M..

Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata, pur avendo correttamente ribadito i principi di diritto, in relazione al contenuto fattuale della condotta di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, mettendo in rilievo la necessità di un contributo causale, volto a mantenere o a rafforzare il ruolo dell’associazione sul territorio, non ha fatto buon governo di tali principi, così come evidenziato dalla motivazione contraddittoria e manifestamente illogica. La Corte territoriale, rivalutando i fatti, ha invertito il necessario ordine di valutazione: sulla prova degli accadimenti storici e sulla determinazione del loro esatto perimetro; sul giudizio di idoneità degli stessi, per come ricostruiti, a far crescere o quantomeno a mantenere il consolidamento sul territorio del ruolo e della funzione svolta dalla locale di Aosta; nel caso di un responso positivo ai precedenti passaggi, sulla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al S.. Nella sentenza impugnata i fatti sono descritti solo nella prima parte, senza tener conto di quanto accertato e ritenuto dal Tribunale, mentre, nella seconda parte, alle singole vicende si fa solo cenno al fine di valutarne la portata e la rilevanza. Il ricorrente contesta la rilevanza di due circostanze alle quali la Corte territoriale ha fatto riferimento: il fatto che tra il R. e il S. vi sarebbe stato un rapporto di amicizia, che offrirebbe una spiegazione all’assidua frequentazione tra i due imputati; l’esclusione della consapevolezza, in capo al S., dell’appartenenza di R. alla ‘ndrangheta. Quanto alle due vicende particolari, descritte nel capo di imputazione ed esaminate nella sentenza impugnata, il ricorrente censura l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale le condotte di S., per essere penalmente rilevanti, devono dimostrarsi utili all’associazione, optando quindi per la loro irrilevanza e mettendo in rilievo come le condotte di R. non siano state affatto utili per S.. I piani dunque vengono invertiti, ma la Corte territoriale ha trascurato che non è R. a servizio di S., ma è quest’ultimo ad essere, una volta eletto, a servizio di R., quale appartenente alla associazione di ‘ndrangheta. Ancora una volta il ricorrente indica le risultanze processuali in base alle quali tale ultima circostanza sarebbe provata. Anche l’affermazione secondo la quale S. avrebbe comunque iniziato l’attività politica da ben prima che prendesse forma il sodalizio criminoso di cui al capo 1) appare, secondo il ricorrente, la conseguenza di un travisamento del “fatto” e di un percorso logico viziato da gravi contraddizioni, come emergerebbe da una serie di risultanze processuali specificamente indicate nel ricorso.

2.2. Con il secondo e il terzo motivo di ricorso il Procuratore generale denunzia vizi di motivazione e violazione di legge in riferimento all’assoluzione di R. dal reato di cui all’art. 416 ter c.p. ascrittogli al capo 28).

Il ricorrente richiama tutte le argomentazioni svolte in riferimento alla posizione di S., assumendo che le risultanze processuali smentirebbero le valutazioni effettuate dalla Corte territoriale. Evidenzia, altresì, che la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dell’art. 416 ter c.p., avendo, da un lato, riconosciuto che R. è partecipe dell’associazione di ‘ndrangheta della locale di Aosta e, dall’altro, ritenendo necessario, per l’affermazione della sussistenza del fatto, che l’accordo e la sua successiva attuazione richiedessero l’esplicita programmazione di una campagna elettorale mediante intimidazioni.

3. Propone ricorso l’imputato R.A., con atto sottoscritto dai difensori e articolato nei sette motivi qui di seguito sintetizzati.

3.1. Erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), con riferimento all’art. 416 bis c.p., in relazione alla ritenuta sussistenza di un’associazione a delinquere di tipo mafioso. Assume il ricorrente che la sentenza impugnata è incorsa in errore e ha fatto confusione nella applicazione dei principi affermati da questa Corte in materia, utilizzando giurisprudenza che ha affrontato la questione delle c.d. “mafie delocalizzate”, ossia delle associazioni che si sostiene si siano organizzate su un territorio “vergine” a partire da una “casa madre” il cui spessore criminale è già noto, senza tuttavia tenere conto della copiosa elaborazione che proprio a partire da tale fenomeno – la giurisprudenza più recente ha formulato con riferimento all’eventuale natura “silente” di tali presunte organizzazioni (e ai più stringenti requisiti affinché, in tali casi, si possa ritenere che tale organizzazione si avvalga effettivamente della forza intimidatrice richiesta dalla fattispecie astratta). Altre volte la sentenza impugnata trae invece argomenti dalla giurisprudenza sulle c.d. “nuove mafie” e, in particolare, sulle organizzazioni di piccola dimensione che hanno ispirato uno specifico (ma particolare) filone giurisprudenziale, senza a sua volta trarre le dovute conseguenze da tale opzione ermeneutica. Aggiunge il ricorrente che la Corte territoriale non è riuscita neppure a “concretizzare”, sotto il profilo probatorio, le affermazioni di principio contenute in premessa, dimostrando di non aver pienamente compreso quali “paletti” la giurisprudenza di legittimità ha fissato a tal proposito. Dopo aver indicato i passaggi argomentativi e le risultanze processuali in base ai quali la sentenza impugnata ha ritenuto provata l’esistenza del collegamento funzionale, il ricorrente evidenzia che la Corte di appello non riesce a comprendere che non basta affermare che gli imputati fossero in collegamento con N.B. o N.G. affinché possa ritenersi automaticamente dimostrata la sussistenza della “forza evocativa” idonea a far ritenere “esteriorizzato” il metodo mafioso. Il ricorrente evidenzia ulteriori vizi della sentenza impugnata nella parte in cui non chiarisce se sta trattando l’associazione in oggetto come mera estrinsecazione locale della ‘ndrina di (Omissis) o come associazione autonoma, in grado di sprigionare ex se una sufficiente carica intimidatoria e di esteriorizzarla. Censura pure un altro argomento con cui la Corte di appello tenta di collegare la sussistenza del “metodo mafioso” alla pretesa, da parte del gruppo criminale, di “controllare il voto” dei calabresi residenti in Valle, e dunque di condizionare, complessivamente, le elezioni locali. Anche in questo caso, tuttavia, gli episodi che vengono indicati come “significativi” – secondo il ricorrente – non sono in alcun modo idonei ad assurgere a quella “esteriorizzazione del metodo” che viene richiesta dalla giurisprudenza. Sostiene il ricorrente che tutta la parte della sentenza dedicata al presunto attivismo del “clan” nelle questioni elettorali (pagg. 559-564) appare viziata da un incomprensibile salto probatorio, frutto di un inammissibile pregiudizio.

3.2. Con il secondo motivo si denunzia erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), con riferimento all’art. 416 bis c.p., in relazione alla ritenuta partecipazione di R.A. a un’associazione a delinquere di ‘ndrangheta.

La Corte di appello ha ritenuto di derubricare la posizione del ricorrente da promotore a semplice partecipe della ritenuta associazione, sicché è a tale posizione giuridica che deve guardarsi per verificare se la Corte territoriale abbia fatto corretta applicazione delle disposizioni di cui all’art. 416 bis c.p., nella parte in cui esse puniscono la condotta descritta al comma 1.

Dopo aver fatto riferimento ai principi affermati dalle Sezioni Unite Modaffari, il ricorrente sostiene che, se anche si volesse ammettere che la ricostruzione in fatto operata dalla Corte territoriale sia corretta, le circostanze addotte a presunta riprova della obiettiva estrinsecazione della condotta partecipativa non sarebbero comunque, neppure in astratto, idonee ad integrare la violazione della disposizione oggetto di contestazione, per come gli elementi costitutivi della condotta in oggetto sono stati ricostruiti dalla citata giurisprudenza di legittimità.

3.3. Con il terzo motivo si denunzia inosservanza della legge processuale penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), con riferimento all’art. 493 c.p.p., comma 3 in relazione all’utilizzabilità di atti delle indagini preliminari, segnatamente verbali di sommarie informazioni, in difetto del consenso delle parti.

Scrive, infatti, la Corte d’appello a pag. 543 che il padre di P. sarebbe stato amico di N.G. e da questi rispettato per la profonda conoscenza delle arti marziali. Il P., tuttavia, escusso a dibattimento, non ha mai riferito tale circostanza. Il dato, che alla luce dell’assurdità di tale affermazione sembrerebbe irrilevante, ha tutt’altro peso, poiché il teste effettivamente aveva reso tale dichiarazione quando era stato sottoposto ad interrogatorio in data 25 luglio 2016.

3.4. Con il quarto motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione alla dedotta nullità del decreto presidenziale del 4 marzo 2020 e dell’ordinanza emessa in data 3 giugno 2020 dal tribunale relativi all’ammissione dei testi indicati dalla difesa nella propria lista.

Assume il ricorrente che la sentenza impugnata ha trattato le questioni preliminari a partire da pag. 524 e che la motivazione sul punto è carente, dal momento che pare mancare una pagina. La pagina 525, infatti, non è raccordata con quella che la precede ed il contenuto dell’atto impugnato, quindi, è sul punto inintelligibile.

Da quanto scritto a pagina 525 sembrerebbe che la Corte si sia concentrata sul potere del Presidente di ridurre le liste sovrabbondanti, potere che, entro certi limiti, anche le difese riconoscono. Ciò che la Corte territoriale ha omesso di rilevare è che il provvedimento del Presidente del Tribunale di Aosta non ha motivato sull’inammissibilità dei testi per sovrabbondanza. Aggiunge il ricorrente che, anche a voler ritenere che il Presidente del Tribunale di Aosta con il decreto del 4 marzo 2020 sia incorso in un’amnesia linguistica in ragione della quale ha omesso di riferirsi alla sovrabbondanza, il provvedimento sarebbe comunque censurabile poiché non sono stati ammessi testi che, all’evidenza, sovrabbondanti non erano per le ragioni indicate in seguito nel ricorso, così violando il diritto di difendersi provando dell’imputato.

3.5. Con il quinto motivo il ricorrente denunzia vizi motivazionali e travisamento della prova con riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis c.p.. Evidenzia che la Corte d’appello ha definito centrale (pag. 536 della sentenza) il tema del cd. “collegamento con la casa madre”, in relazione al quale, peraltro, ha ritenuto di dover integrare la sentenza di primo grado del Tribunale di Aosta che presentava sul punto una (totale) carenza motivazionale. Ha quindi premesso che, alla luce dell’intervenuta integrazione, non ci si trova al cospetto di una doppia sentenza conforme, avendo la Corte d’appello introdotto un tema del tutto nuovo soprattutto in termini di prova. La Corte d’appello ha stabilito che la locale aostana fosse collegata con la nota ndrina dei N. di (Omissis), della quale quindi sarebbe stata diretta promanazione o gemmazione. A tale conclusione è pervenuta analizzando le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia P. e A., i rapporti parentali tra N. e D.D., nonché i precedenti penali dai quali gli stessi D.D., imputati nel procedimento connesso, sono gravati.

Assume il ricorrente che si tratta di argomenti ed elementi del tutto irrilevanti e inconferenti rispetto al vero thema probandum, ossia il collegamento con la casa madre. Censura, quindi, il linguaggio volutamente suggestivo utilizzato dalla Corte d’appello, dal quale traspare l’errore di fondo che ha condizionato l’esame di questo punto centrale. E’ noto, infatti, che con il termine ndrina si identificano le famiglie che compongono una locale di ‘ndrangheta. L’utilizzo di detto vocabolo nel caso di specie è palesemente errato poiché teso a ricondurre in maniera dogmatica i fratelli N.G. e N.B. alla ndrina componente la locale di (Omissis), e ciò in assenza di qualsiasi cenno agli elementi a supporto dell’affermazione che pure costituisce (o meglio, avrebbe dovuto costituire) il necessario punto di partenza. Evidenzia, altresì, il ricorrente che preliminare ad un più compiuto esame del tema “collegamento con la casa madre” è la contestazione di omessa motivazione circa l’esistenza della locale (o ndrina) di (Omissis), denominata N.- S.. Anche per tale profilo la Corte ha fatto inopinatamente ricorso al concetto di notorietà.

Nel ricorso, poi, vengono singolarmente analizzati gli elementi di prova valorizzati dalla Corte territoriale, che – secondo il deducente – sarebbe incorsa in molteplici travisamenti (anche per omissione), specificamente indicati, con allegazione degli atti ai quali si riferiscono. Sotto altro profilo, il ricorrente evidenzia che la Corte d’appello, diffondendosi in un inconferente richiamo al dato strettamente normativo, ha omesso di confrontarsi con le rigide regole che, sotto il profilo strutturale, contraddistinguono la particolare associazione di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta dalle altre, con particolare riferimento al modello “organizzatorio” di cui l’esistenza del collegamento con la casa madre è parte integrante. In altre parole, il collegamento senza struttura non vale a provare alcunché in tema di esistenza dell’associazione di ‘ndrangheta.

Il ricorrente evidenzia un ulteriore vizio di illogicità e di contraddittorietà intrinseca della sentenza, sul punto specifico, in quanto la locale di Aosta, secondo la Corte d’appello, avrebbe un numero minimo di affiliati (da qui il richiamo alla microassociazione) e, essendo di recentissima formazione, non è mai aumentato, pur a fronte di “un nucleo consistente di fiancheggiatori” (pag. 555 della sentenza).

Altro elemento in relazione al quale la motivazione è stata omessa è quello dei riti di affiliazione, modalità tipica e necessaria per l’adesione di un soggetto alla compagine di ‘ndrangheta.

Ulteriori rilievi sono stati svolti in ordine all’individuazione del programma delittuoso dell’associazione.

Censure vengono formulate in ordine alla parte della sentenza che ha trattato il profilo dell’esteriorizzazione del metodo mafioso. Dopo aver indicato una serie di passaggi argomentativi, censurati anche per travisamento della prova, il ricorrente osserva che, sotto il profilo dell’illogicità manifesta, dai fatti analizzati non emerge in alcun modo l’esistenza di un metodo mafioso, percepito o almeno percepibile da un numero indeterminato di soggetti, ma solo, e al più, una sorta di totalmente inefficace timore reverenziale tra soggetti che ben si conoscono, in ragione di rapporti di amicizia o di frequentazione.

Infine, il ricorrente denunzia omessa motivazione in merito al motivo d’appello con il quale si deduceva la mancata predisposizione dei mezzi necessari al raggiungimento degli obiettivi illeciti, evidenziando che non fosse stato individuato alcun tipo di disponibilità di luoghi e mezzi, pure contestata nel capo di imputazione, diversi dalle abitazioni personali e, nel caso di R., dal suo ristorante.

3.6. Con il sesto motivo si denunziano vizi motivazionali e travisamento della prova sulla valutazione dei comportamenti rilevanti ai fini della ritenuta partecipazione del R. alla associazione.

Il ricorrente articola specifiche censure su una serie di passaggi motivazionali che fanno riferimento a circostanze sulla base delle quali la Corte territoriale ha risposto ai motivi di appello del R., peraltro parzialmente equivocandoli.

Assume che la mancanza di rapporti con gli altri imputati da parte del R. è un elemento dal quale, ancora una volta, emerge chiaramente la manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui è stata affermata l’esistenza di un affectio societatis indimostrato e fondato su motivazione illogica.

Indica, quindi, il ricorrente passaggi motivazionali caratterizzati da illogicità, evidenziando che sul punto la Corte d’appello ha modificato sostanzialmente la sentenza di primo grado, per cui non ci si trova di fronte ad una cd. doppia conforme.

3.7. Con il settimo ed ultimo motivo si deducono vizi motivazionali in ordine al diniego delle attenuanti generiche.

3.8. I difensori di R. hanno depositato memoria con motivi aggiunti, con i quali, oltre a sviluppare ulteriormente le censure già proposte con i motivi del ricorso principale in ordine all’affermazione di responsabilità, hanno evidenziato che, dopo la scadenza dei termini per l’impugnazione, è stato depositato provvedimento di archiviazione dell’indagine denominata (Omissis), che aveva ad oggetto ipotesi di reato di cui all’art. 416 ter c.p., secondo l’ipotesi accusatoria commessi in occasione delle elezioni regionali della (Omissis), tra i mesi di aprile e maggio 2018, da alcuni degli odierni imputati, tra i quali lo stesso R..

Quantomeno questo era quello che pareva potersi dedurre dalla lettura dell’avviso di conclusione delle indagini (notificato in data 21.03.2021) e depositato nel corso del processo d’appello; si tratta di un documento più volte richiamato dalla Corte territoriale, come se si trattasse di una sentenza di condanna passata in giudicato.

Evidenzia la difesa che, invece, ci si è trovati al cospetto di un’indagine assai confusa, dalla quale non è emerso nulla di penalmente rilevante, che si è protratta per un lasso temporale del tutto inadeguato sia ai contenuti che agli esiti. Il procedimento (Omissis) e’, infatti, rimasto pendente per un tempo che non può definirsi ragionevole (dal 2018 al 2022) soprattutto alla luce del fatto che, a partire dalla data successiva alle elezioni, non è stato acquisito nessun elemento di indagine significativo.

Sottolinea la difesa che l’unico dato che emerge con certezza dal provvedimento di archiviazione è quello della sostanziale inesistenza di reati scopo e di inquinamento della competizione elettorale del 2018: non vi è stato nessun tipo di accordo con i singoli candidati, non vi è stata ricerca del voto e neppure vi sono state utilità.

4. Propone ricorso P.N., con atto sottoscritto dal difensore ed articolato nei tre motivi qui di seguito sintetizzati.

4.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge in relazione al riconoscimento giuridico dell’esistenza di una locale di ‘ndrangheta in Aosta. Il Tribunale aveva ritenuto che, una volta raggiunta la prova dei connotati distintivi della ‘ndrangheta e del collegamento con la casa madre, la nuova formazione associativa fosse già in sé pericolosa per l’ordine pubblico, indipendentemente dalla manifestazione di forza intimidatrice nel contesto ambientale in cui era radicata. La motivazione espressa della sentenza di primo grado aveva un fine ben preciso, vale a dire superare la naturale difficoltà di dimostrare la sussistenza degli elementi fondanti del reato associativo e, in particolare, dell’attuale capacità di predominio sul territorio. La Corte di Appello, con la sentenza impugnata, opera – secondo il ricorrente – una interpretazione del tutto singolare del concetto di forza d’intimidazione, cercando in tal modo di puntellare la motivazione espressa dal Tribunale ed affermando che non è necessario che la forza di intimidazione sia esternata attraverso specifici atti di minaccia o violenza, potendosi essa ricondurre anche ad azioni, di per sé irrilevanti sotto il profilo penale se isolatamente considerate, che siano comunque evocative della fama criminale dell’associazione.

Il ricorrente richiama i principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite Modaffari e sostiene che è censurabile una motivazione che ritenga di superare il vaglio di prova richiesto, semplicemente dimostrando che alcuni soggetti intranei al “gruppo” riuscissero a coartare la volontà di altri soggetti, anch’essi gravitanti nello stesso contesto relazionale.

La Corte di appello ha provveduto ad integrare la sentenza di primo grado, procedendo ad un intervento additivo in relazione all’accertamento dei collegamenti tra la locale di Aosta e la “casa madre”, ritenendo necessario rafforzare la sentenza emessa dal Tribunale. A giudizio della Corte territoriale, i collegamenti tra la locale di Aosta e la cosca madre sarebbero provati dal narrato dei due collaboratori di giustizia, A. e P., oltre che dai legami familiari tra i D.D. e la nota cosca dei N. di (Omissis).

Secondo il ricorrente la sentenza impugnata sul punto si è avventurata in un percorso logico-argomentativo per nulla lineare; infatti, al fine di dimostrare che la locale di Aosta non è altro che una costola della cosca N., è partita dall’oggettivo legame familistico tra i D.D. ed i N. ma, elencando i precedenti penali dei due germani, si è scontrata con la totale assenza di precedenti di natura associativa, per cui la Corte territoriale ha concluso affermando che la fama criminale va riferita al gruppo e non certo al singolo.

In relazione alle dichiarazioni dei collaboratori A. e P. il ricorrente sostiene che non può che richiamarsi quanto già censurato in sede di appello, con la premessa che la stessa Corte d’appello ha ritenuto non ammissibile il giudizio di attendibilità estrinseca espresso dal Tribunale in relazione alla figura di Paraninfo, le cui dichiarazioni si sono caratterizzate per genericità.

Aggiunge il ricorrente che la Corte di appello di Torino, trattandosi di nuova formazione illecita associata, avrebbe dovuto produrre una motivazione rafforzata al fine di dichiarare sussistente il reato ex art. 416 bis c.p., in quanto non basta ad integrare tale requisito di tipicità dell’associazione mafiosa la mera riproduzione all’interno del sodalizio di regole, strutture e ripartizioni gerarchiche dei ruoli analoghe a quelle dei gruppi storici di `ndrangheta, essendo imprescindibile l’esteriorizzazione in concreto della capacità di intimidazione all’esterno e la connessa produzione di un assoggettamento omertoso diffuso.

4.2. Con il secondo motivo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 1 e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento alla partecipazione con ruolo di partecipe al sodalizio criminoso. Dopo aver ripercorso le argomentazioni della sentenza impugnata sul punto, il ricorrente evidenzia che la Corte territoriale “persevera nella stessa argomentazione illogica prospettata dal Tribunale”, senza considerare una serie di circostanze pur allegate con l’atto di appello.

4.3. Con il terzo ed ultimo motivo si denunzia violazione di legge in relazione alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

Deduce il ricorrente che la Corte di appello non fornisce spiegazione alcuna alla determinazione di non attestarsi ai minimi edittali del reato.

5. Propone ricorso G.A., con atto sottoscritto dai difensori ed articolato nei sei motivi di seguito sintetizzati.

5.1. Con il primo si denunziano violazione di legge e vizi motivazionali in relazione al decreto del Presidente del Tribunale del 4 marzo 2020 e dell’ordinanza del 3 giugno 2020 emessa dal Tribunale, relativi all’ammissione dei testi indicati dalla difesa nella propria lista.

Si rileva che la motivazione della Corte territoriale è monca – risolvendosi quindi in un vizio di mancanza della motivazione – non essendovi alcun raccordo tra la pag. 524, ultimo rigo, e la pag. 525, primo rigo, onde il ragionamento addotto dalla sentenza impugnata per sostenere il rigetto delle doglianze dedotte nel relativo atto di appello non è in alcun modo intellegibile.

Assume il ricorrente che la prova richiesta era indispensabile e, sicuramente, non sovrabbondante, in quanto non eccedente il numero necessario di elementi di prova (testimoni) chiamati a dimostrare il thema probandum nell’ambito di un procedimento assai complesso, nel quale le indagini sono durate cinque anni.

5.2. Con il secondo motivo si denunziano violazione della legge processuale e correlati vizi motivazionali in riferimento alla nozione di indispensabilità e rilevanza delle intercettazioni relative al procedimento penale c.d. (Omissis).

5.2.1. Nell’atto di appello la difesa dell’imputato aveva contestato la decisione contenuta nell’ordinanza 3 giugno 2020 emessa dal Tribunale di acquisire le intercettazioni del procedimento (Omissis) tra il materiale probatorio, trattandosi di procedimento ancora in fase di indagini preliminari, ravvisandosi violazione del diritto di difesa, con riferimento alla mancata discovery di detto materiale in occasione dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p., ma soprattutto assumendo violato l’art. 270 c.p.p. in relazione al dettato dell’art. 266 c.p.p., che richiede che “l’utilizzazione delle intercettazioni sia condizionata dalla rilevanza ed indispensabilità ai fini dell’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.

L’ordinanza del Tribunale forniva una lettura errata della nozione di indispensabilità, collegandola, come quella della rilevanza, alla utilizzabilità anziché all’accertamento del fatto di reato oggetto del procedimento nel quale le intercettazioni vengano eventualmente prodotte.

E ciò, non solo in difformità alla lettura costituzionale della norma processuale richiamata (Corte Cost. 24 febbraio 1994, n. 63, in Giur. Cost. 1994, 363), ma anche all’interpretazione secondo cui tale utilizzabilità è possibile quando i risultati in questione siano “indispensabili” all’accertamento del fatto di reato, altrimenti non dimostrabili con diversa rilevante prova di accusa.

Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non dedica un solo rigo al tema essenziale della indispensabilità e rilevanza, in ciò incorrendo in un vizio di violazione di legge che si traduce, al contempo, in carenza di motivazione derivante dal testo del provvedimento impugnato, non venendo l’argomento difensivo neppure succintamente richiamato anche solo per ritenerlo irrilevante o ininfluente.

5.2.2. Con i motivi aggiunti la difesa del G., in relazione al motivo secondo del ricorso principale, ha evidenziato di essere venuta in possesso di un ulteriore e rilevante documento in ordine a quel procedimento (Omissis) e, in particolare, della richiesta e del pedissequo decreto di archiviazione emessi, rispettivamente, in data 18 agosto (con deposito al Giudice per le indagini preliminari in data 26 settembre 2022) e 30 settembre 2022.

Dopo aver richiamato la giurisprudenza in tema di ammissibilità della produzione di un documento nuovo in sede di legittimità, la difesa evidenzia che la pertinenza della produzione documentale è chiara, nell’ottica del secondo motivo di ricorso (ma anche di quelli successivi), in quanto finalizzata a dimostrare il vizio di diritto che si traduce, al contempo, in carenza di motivazione derivante dal testo del provvedimento impugnato, non avendo la Corte territoriale dedicato un solo rigo al tema essenziale dell’indispensabilità e rilevanza della produzione di atti di altro procedimento penale – nella specie gli atti del procedimento (Omissis), oggetto di recente archiviazione – richiesti indefettibilmente dall’art. 270 c.p.p..

5.3. Prima di articolare gli ulteriori motivi nel merito, la difesa del ricorrente premette che, non condividendo in alcun modo l’impostazione del Tribunale, esplicitamente e in più passaggi criticata dalla sentenza impugnata, la Corte territoriale ha ritenuto, con ciò aderendo all’impostazione difensiva, la non acquisibilità dei precedenti richiamati dalla sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. ed ha, quindi, definito il sodalizio criminoso contestato al capo 1) come “neoformazione”.

Modificata così l’impostazione dell’intero impianto argomentativo sull’esistenza del sodalizio criminoso integrante la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., la Corte territoriale, oltre a dover integrare necessariamente la motivazione della sentenza di primo grado, ha dovuto altresì valorizzare elementi di prova mai neppure considerati dal Tribunale.

5.3.1. Con il terzo motivo si denunzia violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso individuata come locale aostana.

La Corte territoriale, completamente sovvertendo l’impostazione del Tribunale ritiene, diversamente dalla tesi accusatoria fatta propria dalla sentenza di primo grado, che la locale di ‘ndrangheta di cui al capo 1) di imputazione sia una formazione criminale del tutto nuova.

5.3.2. Dopo aver richiamato i principi affermati in materia da questa Corte, il ricorrente deduce che nella specie non si può affermare, come pretenderebbe la Corte di appello, che una locale di ‘ndrangheta possa ritenersi esistente anche in assenza degli indici di struttura tipici di questa particolare conformazione criminosa; la sentenza impugnata ha completamente obliterato l’insegnamento della Cassazione sul punto, sottraendosi, così come aveva già fatto il Tribunale, all’obbligo di scandagliare la dinamica associativa, anzitutto, dal punto di vista strutturale.

Ulteriore profilo di erroneità giuridica è denunziato dal ricorrente laddove la Corte territoriale, nel tentativo di integrare le carenze della motivazione del Tribunale evidenziate dagli appellanti, ritiene sussistente il centrale requisito del collegamento con la casa madre (pag. 536 della sentenza impugnata), asserendo che il collegamento è “evidentemente costituito dalla nota ndrina dei N. di (Omissis)”.

Il ricorrente sottolinea la centralità del tema anche con riferimento all’ulteriore requisito del metodo mafioso, giacché nel caso in esame, a fronte di un sodalizio criminoso con le evanescenti caratteristiche evidenziate dalla Corte territoriale, non risulta integrata alcuna esteriorizzazione della forza di intimidazione.

5.4. Con il quarto motivo si denunziano vizi motivazionali e travisamento della prova con riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis c.p..

Dopo aver ripercorso il ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale per sostenere l’integrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di associazione per delinquere di stampo mafioso con riferimento alla locale aostana contestata al capo 1) di imputazione, il ricorrente lo censura come manifestamente illogico in quanto contrario ai principi della logica formale e intrinsecamente contraddittorio. Tale vizio, che si evince dal provvedimento impugnato e da specifici atti del presente processo (indicati analiticamente dal ricorrente), è percepibile ictu oculi e riguarda rilievi di macroscopica evidenza, tali da disarticolare l’intero impianto logico-argomentativo della sentenza gravata in punto responsabilità.

Ulteriori rilievi vengono fatti con riferimento al programma criminoso dell’associazione di cui si assume l’esistenza: il ragionamento dell’impugnata sentenza è manifestamente illogico, come emerge dallo stesso provvedimento impugnato. L’argomento non è trattato in maniera organica e occorre scorrere l’intera motivazione relativa alla sussistenza del sodalizio criminoso per evidenziarne i tratti caratteristici. Nella nuova e diversa ottica accolta dalla Corte territoriale – una neoformazione, in progressiva via di espansione – anche il programma politico dell’associazione cambia volto rispetto a quanto si legge nella sentenza di primo grado: anzitutto, un’attività declinata come mero “tentativo”, senza nessuna interferenza nell’attività elettorale, né con riferimento alle elezioni comunali del 2015 (rispetto alle quali si esclude qualunque interferenza sia per la C. sia per S.) né in quelle del 2018 di cui i capi, N.B. e D.D.M.F., non si occupano, non essendo neppure attinti dall’avviso di conclusione indagini ex art. 415 bis c.p.p. nel procedimento (Omissis).

Quanto al metodo mafioso, il ricorrente denunzia che ritenere mafiosa una locale work in progress, secondo la definizione della Corte territoriale, composta da quantomeno tre membri, privi di doti, di compiti predeterminati, di soldi e di armi, caratterizzata da un’attività “prudente” non estrinsecatasi nella commissione di reati fine, costituisce una vera e propria contraddizione in termini.

5.5. Con il quinto motivo si denunzia violazione di legge in relazione alla nozione di partecipe nel delitto di cui all’art. 416 bis c.p..

Il ricorrente evidenzia che in quattro sole pagine la Corte territoriale ha liquidato il principale motivo di impugnazione contenuto nell’atto di appello, volto a dimostrare l’insussistenza della partecipazione dello stesso, sia sotto il profilo oggettivo sia soggettivo, al sodalizio.

5.6. Con il sesto motivo si denunziano vizi motivazionali e travisamento della prova in tema di partecipazione all’associazione per delinquere.

Denunzia il ricorrente la carenza di motivazione in ordine alle argomentazioni difensive contenute nell’ampio e specifico motivo di appello. Lo sbrigativo riassunto delle condotte ritenute rilevanti non contiene alcuna motivazione, salvo cenni generici, alle doglianze difensive, né i temi dedotti risultavano affrontati nella sentenza di primo grado, sicché il richiamo alla stessa da parte della Corte territoriale non vale a sanare il vizio di mancanza di motivazione.

6. Propone ricorso C.M., con atto sottoscritto dai difensori ed articolato nei quattro motivi qui di seguito sintetizzati.

6.1. I primi due motivi hanno ad oggetto argomentazioni che si sovrappongono a quelle oggetto dei primi due motivi proposti nell’interesse di G., sicché si rinvia a quanto sopra esposto (parr. 5.1. e 5.2).

Anche la difesa della C. ha depositato memoria con motivi aggiunti, allegando il documento nuovo costituito dalla richiesta e conseguenziale decreto di archiviazione nel procedimento c.d. (Omissis).

6.2. Nei motivi aggiunti si deduce che l’archiviazione disposta nel procedimento c.d. (Omissis) influisce sulla fondatezza del terzo motivo del ricorso principale, con il quale la ricorrente ha denunziato violazione di legge in relazione alla configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Richiamato il ragionamento fatto nella sentenza impugnata, la ricorrente evidenzia che la Corte territoriale, disarticolando l’impianto motivazionale dal punto di vista giuridico prima ancora che logico, ha eliminato anche quella parte di condotta residuale, rispetto alla contestazione del patto di scambio politico mafioso, già esclusa dal Tribunale, e consistente nell’appoggio elettorale.

Accogliendo i rilievi critici contenuti nel motivo 3.3. dell’atto di appello, la Corte territoriale ha definitivamente demolito l’impostazione accusatoria a carico della ricorrente, ritenendo non provato anche l’appoggio elettorale all’imputata da parte di D.D.M.F. e di R.A. e, in generale, qualunque accordo sinallagmatico intervenuto tra i due appartenenti al sodalizio e la C., prima e durante le elezioni del maggio 2015.

Deduce la ricorrente che tale conclusione, che fa venire meno il presupposto logico delle condotte di rafforzamento dell’associazione contestate all’imputata, per utilizzare l’espressione contenuta nella parte motiva relativa al concorrente esterno S., assolto con formula piena (pag. 622), non è priva di conseguenze giuridiche atteso che l’imputazione, così ridisegnata, non integra la fattispecie di concorso esterno, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte. Dopo aver richiamato i principi affermati da tale giurisprudenza e, in particolare, da Sezioni Unite Mannino, la ricorrente sostiene che nel caso in esame manca la prova della conclusione di un patto tra la C. e i due asseriti membri della locale aostana.

6.3. Con il quarto motivo di ricorso si denunziano vizi motivazionali e travisamento della prova in relazione all’affermazione di responsabilità.

La ricorrente riporta tutti i passaggi argomentativi della sentenza impugnata, evidenziando i profili di contraddittorietà e illogicità della motivazione, anche tenuto conto della valorizzazione e valutazione dei medesimi elementi con “pesi” diversi relativamente alla posizione del S., che è stato assolto.

Evidenzia, altresì, la difesa come dalle risultanze processuali (trascurate dalla Corte territoriale) sia emersa la prova che la C. frequentava la casa del D.D. in ragione della amicizia con la moglie di costui.

In maniera analitica la difesa della ricorrente indica le ulteriori prove dichiarative trascurate o travisate dalla Corte territoriale e che smentirebbero tutti gli elementi valorizzati dai giudici di merito per l’affermazione della responsabilità.

7. La difesa di S. ha depositato memoria contenente controdeduzioni all’atto di impugnazione proposto dal Procuratore Generale, in virtù delle quali chiede dichiararsi inammissibile il ricorso.

8. Il Procuratore Generale, nella persona del Dott. Andrea Venegoni, ha depositato requisitoria scritta, con la quale ha chiesto dichiararsi inammissibili tutti i ricorsi, richiesta ribadita nel corso della discussione orale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso del Procuratore Generale è inammissibile, mentre gli altri ricorsi vanno accolti per le ragioni e nei limitati termini qui di seguito indicati.

2. In primo luogo vanno esaminate le questioni proposte dagli imputati R., G. e C. in relazione alla dedotta nullità del decreto presidenziale del 4 marzo 2020 e dell’ordinanza emessa in data 3 giugno 2020 dal Tribunale, relative all’ammissione dei testi indicati dalla difesa nella propria lista.

2.1. Fondata è la deduzione delle difese in ordine alla mancanza di una parte della motivazione sul punto, giacché, in effetti, la pagina 525 della sentenza impugnata non è raccordata con l’ultimo rigo di quella che la precede.

2.2. Tuttavia, dal resto del testo leggibile si comprende che la decisione della Corte territoriale si è incentrata sul potere dei giudici di primo grado e, in particolare, del presidente del collegio di ridurre le liste non solo manifestamente “sovrabbondanti” ma anche superflue.

In proposito, va ribadito che, sebbene l’art. 468 c.p.p., comma 2, preveda che il presidente del collegio giudicante possa escludere le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente sovrabbondanti, la norma va letta congiuntamente agli artt. 187 e 190 c.p.p., che indicano come parametro di ammissibilità anche quello della pertinenza al thema probandum. Ne deriva che il diritto alla prova, riconosciuto alla parte, con il più ampio potere di richiesta, non può significare che solo in sede dibattimentale, ex art. 495 c.p.p., il giudice possa esercitare legittimamente il potere di esclusione della testimonianza. La pertinenza, ossia l’inerenza al tema della prova, è limite coessenziale all’ammissibilità della prova stessa, sicché l’esclusione, ove essa difetti, può avvenire anche nella fase degli atti preliminari e non solo in quella degli atti introduttivi al dibattimento (Sez. 5, n. 7721 del 26/06/1996, Rv. 205553).

Nella specie, la Corte territoriale ha anche rilevato che “i testimoni di cui gli appellanti hanno sollecitato la reintroduzione attraverso i relativi motivi di gravame (ci si riferisce, in particolare, agli appelli C. e R.), sarebbero stati comunque chiamati a deporre su circostanze già oggetto di accertamento attraverso altre deposizioni a discarico, le quali essi, nella prospettiva di un auspicato inserimento nel contraddittorio, altro non avrebbero fatto che asseverare. Ne’, peraltro, il gravame R. specifica anche solo minimamente le ragioni per cui l’esclusione del teste richiesto dal novero dei testimoni escussi costituirebbe un errore di gravità tale da inficiare gli stessi esiti dell’istruttoria” (pag. 525 della sentenza).

A fronte di tali argomentazioni le deduzioni dei ricorrenti risultano generiche e, comunque, anche le precisazioni fatte da alcuni difensori durante la discussione orale, oltre che tardive, appaiono finalizzate a sollecitare una rivalutazione in tema di prova non consentita in sede di legittimità.

3. Manifestamente infondate sono le doglianze difensive con le quali si denunziano violazione della legge processuale e correlati vizi motivazionali in riferimento alla nozione di indispensabilità e rilevanza delle intercettazioni relative al procedimento penale c.d. (Omissis).

La Corte territoriale ha rigettato l’analogo motivo di appello (pagg. 527 e 528 della sentenza impugnata) applicando correttamente i principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite Cavallo, che ha chiarito che il divieto di cui all’art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 c.p.p., a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata “ab origine” disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p. (Sez. U, Sentenza n. 51 del 28/11/2019, Rv. 277395).

Va detto, peraltro, che nella specie sono state le stesse difese a richiamare nei motivi aggiunti e, poi, nella discussione gli esiti delle indagini relative al procedimento denominato (Omissis), nel quale è intervenuto un provvedimento di archiviazione, che, in effetti, finisce per influire sulla decisione del presente processo, giacché è evidente che, secondo l’ipotesi accusatoria, i fatti oggetto del suddetto procedimento risultano connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli oggetto delle imputazioni contestate ai ricorrenti.

4. Fondati sono i motivi proposti dalle difese in ordine alla sussistenza del reato di cui all’art. 416 bis c.p. e, in particolare, alla configurabilità di una “locale” di ‘ndrangheta in territorio valdostano.

4.1. La sentenza impugnata, dopo avere correttamente richiamato i principi affermati in materia da questa Corte (pagg. 528 – 536), ha analizzato le risultanze nel presente processo (pagg. 536 – 565), premettendo che la pronunzia di primo grado presenta “delle carenze motivazionali sull’argomento centrale del “collegamento con la casa madre”” e procedendo, quindi, “ad integrazione, in parte qua, della motivazione della stessa” (pag. 536); in particolare, l’integrazione ha riguardato la “presunta carenza di evidente collegamento con la “casa madre”” (pag. 549).

In effetti, la Corte territoriale ha ritenuto “indubbiamente frammentari gli elementi utili a sostenere l’esistenza, in passato, di una “locale” sul territorio della (Omissis)” (pag. 532 della sentenza in esame), così, in sostanza, modificando l’impostazione dell’intero impianto argomentativo della pronunzia di primo grado sull’esistenza del sodalizio criminoso integrante la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. e valorizzando anche elementi di prova non considerati dal Tribunale (pagg. 545 e ss.).

Fondate, allora, sono le deduzioni difensive secondo le quali, alla luce dell’intervenuta integrazione della sentenza di primo grado nei termini sopra indicati, non ci si trova al cospetto di una doppia sentenza conforme di condanna, avendo la Corte d’appello introdotto un tema del tutto nuovo soprattutto in termini di prova, valorizzando altri e diversi elementi, con particolare riguardo alla figura di N.G. e alla sua “incipiente e costante presenza in (Omissis)”, in relazione alla quale la Corte ha analizzato una serie di atti, “sfuggiti sia alle parti che al Primo Giudice” (pag. 546 sentenza).

I passaggi argomentativi della sentenza sul punto del “collegamento con la casa madre”, ritenuto centrale dalla Corte territoriale, risultano però carenti nella parte in cui finiscono per dare rilievo ad elementi che di per sé non dimostrano in concreto il “collegamento funzionale” della locale aostana con la “casa madre” calabrese, di cui, peraltro, non sono puntualizzati dati relativi alla sua coeva esistenza, strutturazione, organigramma ed operatività.

In proposito, va premesso che nel caso della ‘ndrangheta, oltre alla fama criminale conseguita nei territori di origine, in quanto “mafia storica” (menzionata anche dall’art. 416 bis, comma 8, c.p.), ricorre altresì un elemento organizzativo particolarmente pregnante, che caratterizza la criminalità organizzata calabrese: invero, sul presupposto dell’unitarietà a livello nazionale dell’organizzazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta (si vedano in materia, tra le tante, Sez. 6, n. 44667 del 12/05/2016, Camarda, Rv. 268677; Sez. 2, n. 15412 del 23/02/2015, A.; Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015, Bandiera, Rv. 264471, non massimata sul punto), e dell’accertato modulo di diffusione mediante riproduzione sui territori dove opera delle proprie strutture organizzative denominate “locali”, la struttura criminale “delocalizzata”, cellula della mafia storica calabrese, deve risultare strettamente collegata alla cd. “casa madre” ovvero al c.d. “locale originario” insediato in Calabria (cui compete il mantenimento degli equilibri generali, il controllo delle nomine dei capi-locali e delle aperture di altri “locali”, il nulla osta per il conferimento di cariche, la risoluzione di eventuali controversie, la sottoposizione a giudizio di eventuali comportamenti scorretti posti in essere da soggetti intranei alla ‘ndrangheta), mutuandone non soltanto moduli organizzativi (cariche ‘socialì, organigramma, rispetto delle gerarchie, ecc.) e finalità di realizzazione del programma delinquenziale, ma anche la forza di intimidazione conseguita nei territori di originario insediamento.

Nella sentenza Sez. 2, n. 15412 del 23/02/2015, A., si è precisato che: “all’interno dell’alternativa di fondo (metodo mafioso meramente potenziale o in atto), può obiettarsi che richiedere ancora oggi la prova di un’effettiva estrinsecazione del metodo mafioso potrebbe tradursi nel configurare la mafia solo all’interno di realtà territoriali storicamente o culturalmente permeabili dal metodo mafioso o ignorare la mutazione genetica delle associazioni mafiose che tendono a vivere e prosperare anche “sott’acqua, cioè mimetizzandosi nel momento stesso in cui si infiltrano nei gangli dell’economia produttiva e finanziaria e negli appalti di opere e servizi pubblici. E’ – questa – una preoccupazione che rivela un’opzione di fondo (in realtà non presupposta dall’art. 416 bis c.p.) in virtù della quale in tanto può parlarsi di associazione mafiosa in quanto essa sia penetrata in modo massiccio (quasi in maniera irreversibile) nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione. Ma, a parte il rilievo che la verifica di tale penetrazione in zone diverse da quelle di insediamento storico richiederebbe indagini sociologiche incompatibili con gli strumenti dell’accertamento penale, deve osservarsi che poco importa che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà abbia avuto maggiore o minore successo, successo che è in proporzione inversa alla capacità di resistenza civile e culturale delle comunità che della forza di intimidazione siano state destinatarie: in realtà tale impiego, munito della connotazione finalistica delineata dall’art. 416 bis c.p., comma 3 è già di per sé sufficiente ad integrare il delitto in discorso. Piuttosto, meglio sarebbe ridefinire la nozione di c.d. mafia silente non già come associazione criminale aliena dal c.d. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancora più temibile – che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere”.

In senso analogo, si è espressa Sez. 2, n. 24851 del 04/04/2017, Garcea, Rv. 270442: “Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art. 416 bis c.p., in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie “atipiche”, non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice”.

A sostegno della tesi dell’osmosi tra la forza di intimidazione dei sodalizi storici operanti in Calabria e di quelli ubicati altrove, giova altresì richiamare un passaggio della già citata sentenza “Bandiera” di questa sezione (Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015, Bandiera, Rv. 264471) che ha analizzato il fenomeno anche nei suoi presupposti sociologici: “La mafia, e più specificamente la ‘ndrangheta che di essa e’, certamente, l’espressione di maggiore pericolosità, ha oramai travalicato i limiti dell’area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o ramificazioni, in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari od insensibili al condizionamento mafioso. L’immediatezza e l’alta cifra di diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, propri della globalità, hanno contribuito ad accrescere a dismisura la fama criminale di certe consorterie, di cui, oggi, sono a tutti note spietatezza dei metodi, ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, inequivocità ed efficacia persuasiva dei codici di comunicazione. Sicché, non è certo lontano dal vero opinare che il grado di diffusività sia talmente elevato che il messaggio – seppur adombrato – della violenza (di quella specifica violenza di cui sono capaci le organizzazioni mafiose) esprima un linguaggio universale da tutti percepibile, a qualsiasi latitudine (…) Ora, pretendere che, in presenza di simile caratterizzazione delinquenziale, con confondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà e’, certamente, un fuor d’opera. Ed infatti, l’immagine di una ‘ndrangheta cui possa inerire un metodo “non mafioso” rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce l’in sé della ‘ndrangheta, mentre l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria. Il baricentro della prova deve, allora, spostarsi sui caratteri precipui della formazione associativa e, soprattutto, sul collegamento esistente – se esistente – con l’organizzazione di base. In questo senso, vanno dunque lette ed apprezzate le statuizioni di questa Corte regolatrice, che reputano sufficiente la mera potenzialità del vincolo associativo, indipendentemente dal suo concreto esteriorizzarsi”.

4.2. Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto che la locale aostana fosse collegata con la “nota” ‘ndrina dei N. di (Omissis), della quale quindi sarebbe stata diretta promanazione. A tale conclusione è pervenuta analizzando (pagg. 536 e ss. della sentenza) le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia P. e A., i rapporti parentali tra N. e D.D., nonché i precedenti penali dai quali gli stessi sono gravati. La motivazione, tuttavia, è carente sotto alcuni profili e manifestamente illogica sotto altri, giacché è basata su argomenti ed elementi che si dimostrano inconferenti rispetto al tema del collegamento con la cd. casa madre. Ne’ è individuato in sentenza alcun elemento da cui desumere quel necessario collegamento organico e funzionale, quantomeno sotto forma di dipendenza, della “neoformazione” con il sodalizio-fonte, limitandosi in effetti la Corte territoriale ad indicare che detto collegamento dovrebbe derivare da alcuni viaggi effettuati da un soggetto, N.G., avente lo stesso cognome della stirpe N., ad Aosta.

La sentenza finisce, peraltro, per ricondurre in maniera dogmatica ed assertiva i fratelli N.G. e N.B. alla ‘ndrina di (Omissis) in Calabria. Nel valorizzare, come si è detto, la presenza in alcune occasioni nel territorio valdostano di N.G., la Corte d’appello ha apoditticamente affermato che è “notoria la sua appartenenza alla stirpe dei N. di (Omissis), ed altrettanto noto il suo curriculum deviante, con condanne definitive per traffico internazionale di droga e violazione della sorveglianza speciale di P.S., nonché condanna in appello nel procedimento “Minotauro”, ancora sub judice al momento della sua uccisione” (pag. 548 della sentenza).

In primo luogo, va detto che la Corte di appello in tale passaggio motivazionale fa riferimento al concetto di “stirpe” dei N. di (Omissis), concetto con evidenza diverso da quello di ‘ndrina.

Il ricorso poi al fatto “notorio” riferito alla “appartenenza” di N.G. alla stirpe dei N. di (Omissis), con indicazione del suo curriculum criminale, non può affatto ritenersi dimostrativo del collegamento “funzionale” tra l’ipotizzata locale aostana e la “casa madre”, locale (o ndrina) di (Omissis) denominata N.- S., in relazione alla cui esistenza e operatività non v’e’ in effetti alcuna motivazione.

Fondati, in proposito, sono i rilievi difensivi secondo i quali la Corte d’appello ha omesso di confrontarsi con le rigide regole che, sotto il profilo strutturale, contraddistinguono la particolare associazione di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta dalle altre (si veda in proposito quanto rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte richiamata sopra nel par. 4.1.), con riferimento al modello “organizzatorio”, di cui l’esistenza del collegamento con la casa madre è parte integrante.

Come si è già sopra (par. 4.1) sottolineato, la reale connotazione delle forme di “delocalizzazione” della ‘ndrangheta (in ragione proprio delle peculiarità strutturali, organizzative ed operative), connotata da forme di vera e propria “colonizzazione” dei territori nei quali decide di estendere la propria forza egemonica, non può che risiedere nell’intrinseca forza di intimidazione derivante dal collegamento con le componenti centrali dell’associazione mafiosa, dalla riproduzione sui territori delle tipiche strutture organizzative della ‘ndrangheta, dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico ed originario insediamento.

Insomma, l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta in territorio diverso da quello “storico” presuppone l’individuazione di elementi strutturali, organizzativi, operativi riconducibili al paradigma normativo dell’art. 416 bis c.p., in quanto deve essere capace di avvalersi di una forza di intimidazione intrinseca alla struttura dell’associazione mafiosa, nelle sue componenti centrali e delocalizzate, e pur in assenza di forme di esteriorizzazione (che non coincide con il diverso concetto di estrinsecazione) eclatante del metodo mafioso e della forza di intimidazione (si veda in tal senso la lucida e condivisibile analisi contenuta nella motivazione della sentenza Sez. F, Sentenza n. 56596 del 03/09/2018, Rv. 274753).

4.3. Indubbiamente le difficoltà nel caso di specie derivano, come riconosce la stessa Corte territoriale, dal fatto che “il problema, qui di estrema pregnanza, è quello delle c.d. mafie delocalizzate”, le cui modalità operative, tra l’altro, implicano la “compatibilità con il modello normativo disegnato (…) con l’introduzione dell’art. 416 bis c.p.”.

Sarebbe stato dunque necessario che la sentenza in esame chiarisse come una locale di ‘ndrangheta possa ritenersi esistente anche in assenza di indici strutturali tipici di questa particolare conformazione criminosa, operando in un territorio diverso e lontano da quello calabrese. Questo Collegio condivide i principi secondo i quali, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis c.p. in relazione ad una articolazione periferica (c.d. “locale”) di ‘ndrangheta, attiva nel territorio della Calabria, non è necessario dimostrarne in concreto la capacità intimidatoria mafiosa, essendo sufficiente provare che la cosca appartenga ad una precisa “locale” della più generale struttura di ‘ndrangheta, da cui mutua il potere di egemonizzazione criminale sul territorio di pertinenza, riconosciuto “ex lege” in forza del disposto di cui all’ultimo comma del predetto articolo (Sez. 2, n. 12362 del 02/03/2021, Rv. 280997).

Diversamente deve invece ritenersi nei casi di operatività in territorio diverso da quello calabrese, anche laddove non sia replicato il peculiare modello di insediamento dell’associazione mafiosa di riferimento, purché: “emerga il collegamento della nuova struttura, pur dotata di autonomia organizzativa, con tale sodalizio; la nuova struttura svolga un’attività destinata ad “occupare” aree produttive e di mercato, inquinando il relativo tessuto sociale-economico e sia mossa dalle stesse logiche dell’associazione di riferimento; il suo modulo organizzativo replichi i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando presagire il pericolo per l’ordine pubblico; vi sia dotazione di mezzi idonei a sprigionare nel nuovo contesto una forza intimidatrice propria, dotata di effettività e obiettivamente riscontrabile; vi sia la spendita, anche nei confronti di altre organizzazioni criminali presenti sul territorio, della fama criminale conseguita nei territori di storico e originario insediamento” (così, Sez. 2, n. 47538 del 18/11/2022, Rv. 284182).

Non va trascurato, d’altronde, che il nucleo della fattispecie incriminatrice si collochi nell’art. 416 bis c.p., comma 3 laddove si definiscono unitariamente metodo e finalità dell’associazione mafiosa, in quanto tali finalità si qualificano solo se c’e’ uno specifico “metodo” che le alimenta.

E’ evidente, allora, che per le associazioni, come quella ipotizzata nella specie, che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo “storico”, deve essere esaminato in maniera puntuale il loro concreto atteggiarsi.

E’, altresì, evidente, che, nell’ambito dell’analisi giudiziaria, debbano emergere le peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma pone un problema di “assimilazione” normativa alle mafie “storiche” che rende necessaria un’attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto “simmetrie” fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane, diverse fra loro (così, in motivazione, Sez. 2, n. 47538 del 18/11/2022, cit.).

Indubbiamente, vanno fatte considerazioni diverse nei casi delle locali di ‘ndrangheta per le quali si ritiene – come ha fatto la Corte territoriale nella specie – rilevante il collegamento della struttura territoriale con la casa madre. In tali casi, si ribadisce, è necessario individuare l’adozione di un modulo organizzativo che riproduce i tratti distintivi della suddetta struttura, così da caratterizzarne l’intrinseca essenza e lasciare presagire il pericolo per l’ordine pubblico.

E, solo in tali casi, si è condivisibilmente affermato che il reato di cui all’art. 416 bis c.p. sia configurabile anche in difetto della commissione di reati fine e dell’esteriorizzazione della forza intimidatrice qualora il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico. In tal senso, si è espressa la già citata sentenza Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015, Bandiera, Rv. 264471, in una fattispecie relativa ad una cellula “locale” della ‘ndrangheta operante in Piemonte, in cui, però, è stato, tra l’altro, valorizzato il fatto che una delegazione di appartenenti alla struttura periferica si era recata in Calabria per ottenere, da un esponente di spicco dell’organizzazione mafiosa, il “placet” per la costituzione di una nuova cellula in altro comune piemontese. Nella sentenza impugnata in questa sede manca il riferimento a un episodio così significativo per ritenere sussistente il collegamento funzionale con la ‘ndrina operante in Calabria.

In senso analogo, la sentenza Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Cataldo, Rv. 270290, ha osservato come diverso sia il caso di una neoformazione che si presenta quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle c.d. “mafie storiche”, giacché, rispetto ad essa, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416 bis c.p., tra cui la manifestazione all’esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell’ambiente circostante.

In un’altra pronunzia di questa Corte e con riferimento ad un’articolazione in una cittadina svizzera di un sodalizio della ‘ndrangheta radicato in Calabria, si è evidenziato che i moderni mezzi di comunicazione propri della globalità hanno reso noto il metodo mafioso proprio della ‘ndrangheta anche in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, per cui non è necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento o di omertà, in quanto l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla consorteria (Sez. 5, n. 28722 del 24/5/2018, Demasi, Rv. 273093 – 01; si vedano anche Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Cataldo e altri, Rv. 270290 – 01; Sez. 2, n. 4305 del 11/01/2012, 2012, Caridi, non massimata; si veda anche Sez. 2, n. 31920 del 04/06/2021, PG c/Alampi, Rv. 281811 – 01). Nello stesso senso si sono pronunziate: Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264623, in una fattispecie relativa alle “locali” de “La Lombardia” collegata con la ‘ndrangheta operante in Calabria, secondo cui, ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti, la quale può, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l’associazione principale, oppure dall’esteriorizzazione “in loco” di condotte integranti gli elementi previsti dall’art. 416 bis c.p., comma 3. E, ancora, la già citata Sez. 6, n. 44667 del 12/05/2016, Camarda, Rv. 268676, secondo cui, in tema di associazione di tipo mafioso, nei casi di delocalizzazione di più articolazioni periferiche (c.d. locali) che, pur richiamandosi a consorterie mafiose comprese tra quelle specificamente tipizzate sulla base di una consolidata esperienza, costituiscano un unico centro autonomo di imputazione di scelte criminali in un diverso quadro territoriale, non occorre che ogni cellula abbia dato luogo alla manifestazione del metodo mafioso, essendo invece necessario verificare che ciascuna di esse sia effettivamente parte del sodalizio e che questo, nel suo complesso, si sia manifestato nel nuovo contesto territoriale attraverso modalità concrete che, pur potendo non postulare azioni eclatanti, devono consistere nell’attuazione di un sistema incentrato sull’assoggettamento derivante dalla forza del vincolo associativo (fattispecie relativa alla costituzione di plurime “locali” di ‘ndrangheta operanti in Piemonte, in cui si è ritenuta sussistente un’unica associazione mafiosa composta da più cellule tra loro federate, evidenziando da una parte, come le singole cellule, pur operanti in propri ambiti territoriali e mantenendo stabilmente i contatti con gli organismi di vertice della consorteria di riferimento, si riconoscessero “come parti di un tutto”, e, dall’altra, come il sodalizio avesse, nel suo complesso, fatto effettivamente uso del metodo mafioso all’esterno ed al suo interno).

Va, peraltro, dato atto che altro orientamento interpretativo richiede la necessità dell’esteriorizzazione, nel territorio ove la realtà associativa opera, di “una forza intimidatrice che sia effettiva ed obiettivamente riscontrabile” e che si estrinsechi nei confronti di terzi o dei sodali stessi (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269043; Sez. 6, n. 34874 del 15/07/2015, Paletta, Rv. 264647, relativa, tuttavia, ad una compagine che operava in totale autonomia rispetto alla ‘ndrangheta calabrese).

4.4. E’ importante evidenziare che pure le pronunzie di questa Corte, nelle quali si è ritenuta configurabile la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. – con riferimento ad una nuova articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza – anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, sono relative a casi nei quali comunque sono stati rilevati elementi riconducibili a finalità e modalità mafiose, nel senso che è stato ritenuto il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento e sussistente il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) del predetto sodalizio, lasciando ciò presagire il pericolo per l’ordine pubblico.

Così, per esempio, nella citata sentenza Sez. 5, n. 28722 del 24/5/2018, Demasi, sono stati valorizzati gli indici di collegamento con la casa madre calabrese, come emergenti dall’ordinanza impugnata, che aveva “ampiamente dato conto che il locale di Frauenfeld, oltre ad essere composto da soggetti di origini calabresi, era strutturato secondo una divisione di ruoli ben precisa, con attribuzione di cariche interne plasmata su quelle tradizionali dell’associazione calabrese, con la presenza di rituali anch’essi tipici della “casa-madre” e chiaramente evincibili dalle intercettazioni, sia quelle riportate nell’ordinanza del Tribunale reggino, sia quelle trascritte nell’ordinanza genetica che non essa fa corpo”.

Di analoghi elementi funzionali e strutturali la sentenza in esame non dà specifico conto, in quanto la locale aostana, secondo la Corte d’appello, avrebbe un numero minimo di affiliati (da qui il richiamo – come si dirà meglio più avanti – alla “microassociazione”), che, essendo di recentissima formazione, non è mai aumentato, pur a fronte di “un nucleo consistente di fiancheggiatori” (pag. 555 della sentenza). E’, quindi, stata ritenuta la sussistenza di un sodalizio completamente destrutturato, formato da un gruppo di ridotte dimensioni, in relazione al quale si conterebbero più fiancheggiatori che affiliati: “…. esso è dotato di un numero limitato di adepti ma si giova di un considerevole numero di soggetti che- visto l’esito delle indagini- possono comunque definirsi calamitati nella sua orbita” (pag. 558; si veda anche il riferimento al numero di “fiancheggiatori” a pag. 555).

Peraltro, come sostenuto dalle difese, proprio l’attenta analisi degli elementi probatori valorizzati dai giudici di merito evidenzia l’insussistenza di una forza di intimidazione promanante verso l’esterno: le vicende di maggior risalto emerse nel presente processo (tra le altre, la vicenda Filice/Elia, la fideiussione di R. a favore della società FRA.NI.DO. e la lite tra Marchetta e Ielardi) dimostrano tutte la sussistenza di meri rapporti di forza diversi tra soggetti gravitanti nello stesso ambiente di sottocultura criminale, non certo la capacità di promanare all’esterno la tipica forza d’intimidazione, che caratterizza un’organizzazione strutturata come la ‘ndrangheta.

La stessa vicenda relativa alla vendita dell’orologio di marca Bulgari di tale R. dimostra che soggetti esterni al gruppo calabrese non avevano alcun timore a rapportarsi in maniera dura e diretta nei confronti di un soggetto al quale l’accusa ha attribuito una funzione apicale nel sodalizio.

Ne’ può attribuirsi valenza dimostrativa al riferimento fatto dalla Corte territoriale alla “cuginanza” del D.D. con i N., nonché ai suoi precedenti penali, non riguardanti il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, neppure sotto il profilo dell’aggravante, risalenti nel tempo e per i quali nell’anno 2016 lo stesso risulta aver scontato interamente la pena: “Quanto al problema del collegamento, evidentemente costituito dalla nota ndrina dei N. di (Omissis), le fonti di prova da scrutinare sono essenzialmente costituite, ovviamente nella parte di interesse, dalle dichiarazioni dei collaboratori P. ed A., tenendo conto già delle acquisizioni fattuali-probatorie incontestabili (ed incontestate dalle parti) per cui: 1) i D.D., pur non essendo membri di una ndrina autonoma (ed omonima, come erroneamente riportato nel relativo capo di imputazione) sono strettamente imparentati con i N., il che, considerato la struttura familistica che caratterizza il vincolo di appartenenza al sodalizio ndranghetistico, assume rilievo dirimente, specialmente alla luce del ruolo-guida assunto dal D.D.M.F.; 2) gli stessi D.D., soprattutto M.F., sono gravati da precedenti penali per fatti di reato afferenti al traffico-anche internazionale per R.A.- di stupefacenti, attività “storicamente” svolta dagli appartenenti alla ndrina dei N.. Tutti i reati in questione per quanto riguarda D.D.M.F. sono stati consumati in territorio valdostano, dove egli, prima dei fatti che portarono alla condanna scontata anche in regime detentivo domiciliare nel biennio che 2015-2016 (che interessa i fatti di causa), è stato perfino sottoposto alla sorveglianza speciale di PS per la durata di anni due” (pag. 536). Questo passaggio motivazionale evidenzia in maniera plastica la serie di salti logici che finisce per caratterizzare il ragionamento fatto dalla Corte territoriale.

Fondate, in proposito, risultano le doglianze difensive secondo le quali l’assunto della Corte territoriale tradisce la sua manifesta illogicità laddove individua il collegamento della locale aostana, rispetto ad una non meglio specificata ‘ndrina di (Omissis), per il cognome ” N.”, per il rapporto di parentela di D.D.M.F. con N.B., nonché di questi con la “famiglia N.” in generale.

Assertivo, poi, risulta il passaggio motivazionale nel quale, sempre a dimostrazione del collegamento, la Corte territoriale richiama le dichiarazioni del collaboratore di giustizia P., che proverebbero, oltre all’esistenza della locale in Aosta, “anche il suo collegamento con la casa madre” (pagg. 542-545).

Nel rispetto del principio di autosufficienza, le difese hanno riportato negli atti di ricorso testualmente il contenuto del verbale afferente alle dichiarazioni del suddetto collaboratore, in tal modo evidenziando il vizio di travisamento per la tenuta dell’impianto argomentativo sul tema del collegamento funzionale della locale aostana con la casa madre, giacché il P., ritenuto assolutamente attendibile dalla Corte territoriale, ha dichiarato di non aver avuto rapporti con N.G., bensì solo con il fratello B. (si veda sul punto pag. 544 della sentenza impugnata), sicché in effetti perde di valenza dimostrativa dell’esistenza del sodalizio criminale la circostanza dei viaggi di N.G. ad Aosta nell’arco temporale indicato nella sentenza.

Come si è detto, la Corte territoriale ha valorizzato elementi trascurati sul punto dal Tribunale, evidenziando come una serie di “verbali attinenti diversi servizi di osservazione, controllo e pedinamento (convenzionalmente denominati “o.c.p.”) documentano, per tutto l’anno 2014 (quello nel quale è collocato, nella contestazione in esame, l’incipit dell’associazione), nonché per l’anno seguente diverse “ascese” in territorio aostano di N.G., già imputato nel presente procedimento ed uscito di scena per uccisione nell’anno 2017″ (si veda pag. 546 della sentenza impugnata).

Tuttavia, dalla lettura dei passaggi argomentativi della sentenza, nei quali appunto è stata ritenuta la valenza dimostrativa della presenza di N.G. in più occasioni nel territorio aostano (si vedano in particolare pagg. 546 e ss della sentenza), si evince che la Corte territoriale ha tratto in maniera apodittica, perché basata su una serie di ipotesi e congetture, elementi significativi sulla operatività del sodalizio.

Fondati, poi, appaiono pure i rilievi difensivi secondo i quali dalla stessa sentenza in esame emerge un ulteriore profilo di illogicità manifesta, laddove N.B., ritenuto dai giudici di merito capo incontrastato della locale di Aosta, avrebbe “la base dei suoi interessi illeciti in Piemonte e (…) stava maturando il proposito di trasferire la piazza di spaccio nel capoluogo lombardo” (pag. 549 della sentenza). Si tratta di argomentazione debole, soprattutto se riferita alla struttura della ‘ndrangheta, giacché non si comprende come N.B. riservasse a sé o ad altri soggetti del tutto estranei al sodalizio aostano attività illecite, tra l’altro assai proficue, quali lo spaccio di sostanze stupefacenti, svolgendole in territori diversi dalla (Omissis), sede della locale dallo stesso diretta in funzione apicale.

5. Quanto poi al programma delittuoso dell’associazione, si rileva che la sentenza di primo grado, peraltro in contrapposizione al provvedimento cautelare, aveva stabilito che “il locale di Aosta non si avvale della propria forza intimidatrice per commettere delitti, ma tende ad insinuare la propria presenza all’interno della ristretta comunità valdostana ed in particolare in quella fascia di popolazione di origine calabrese residente nel capoluogo regionale e nelle località vicine, allo scopo di acquisire vantaggi ingiusti per sé o per altri (in tutti i casi in cui committenti privati avrebbero dovuto scegliere artigiani graditi all’associazione) o, come verrà dimostrato nel presente paragrafo, per orientare le scelte elettorali della comunità di origine calabrese residente in (Omissis), in tal modo condizionando gli esiti delle competizioni elettorali a livello locale, sia comunale che regionale. Peraltro, si deve aggiungere che, per il raggiungimento di questi scopi associativi, i singoli associati pongono, altresì, in essere dei veri e propri delitti-scopo, identificabili nelle condotte di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416 ter c.p.”.

Come ha rilevato la difesa di R., già questa modifica non risultava essere di poco conto, poiché, a fronte di una locale di ‘ndrangheta inizialmente descritta come tipica, sia sotto il profilo strutturale che sotto quello programmatico, all’esito del giudizio di primo grado è stata delineata una compagine assai diversa, sia nel modulo organizzativo, sia sotto il profilo programmatico, giacché, secondo la pronunzia del Tribunale, la locale aostana era un’associazione mafiosa che “non commette reati” e che, in buona sostanza, si era posta solo come obiettivo primario quello di infiltrare i gangli della pubblica amministrazione, regionale e comunale, e solo residualmente quello di acquisire vantaggi ingiusti per sé o per altri.

La sentenza di appello, tuttavia, ha apportato un ulteriore correttivo in merito al programma criminoso, ritenendo che il “nascente” sodalizio inizialmente si fosse rivolto alle attività (per lo più) gestite da soggetti di origine calabrese ed ai settori che potessero consentire al gruppo, anche attraverso eventuali future adesioni, di estendere i suoi tentacoli nel tessuto socio economico-politico regionale (pag. 555 della sentenza in esame).

Il sodalizio, quindi, si sarebbe innanzitutto interessato alle attività economiche di soggetti calabresi, progettando di espandersi nello stesso ramo grazie all’intervento di N.; in seguito, senza un’apparente ragione, dopo aver sondato fugacemente il terreno, avrebbe optato per il settore politico-istituzionale (pag. 560 della sentenza), senza però mai perdere di vista gli altri settori di attività – da quello riservato ai vertici, del traffico di droga, ma anche dell’illecita infiltrazione nelle attività economiche locali (pag. 564 della sentenza).

Tuttavia, tutta la parte della sentenza dedicata all’attivismo del “clan” nelle questioni elettorali (pagg. 559-564) appare viziata da molteplici salti probatori, peraltro non corroborati da ulteriori sviluppi della vita del sodalizio pur ipotizzati nel procedimento c.d. (Omissis), in relazione al quale è intervenuto un provvedimento di archiviazione.

D’altronde, nella nuova e diversa ottica seguita dalla Corte territoriale, avendo ritenuto il sodalizio una “neoformazione” in progressiva via di espansione, anche il programma politico dell’associazione cambia volto rispetto a quanto si legge nella sentenza di primo grado: anzitutto, un’attività declinata come mero “tentativo” (sul punto si dirà anche meglio più avanti), senza nessuna interferenza nell’attività elettorale, né con riferimento alle elezioni comunali del 2015 (rispetto alle quali si esclude qualunque interferenza sia per la C. sia per S.) ma neppure in quelle del 2018, di cui i capi, N.B. e D.D.M.F., non si occupano, non essendo neppure attinti dall’avviso di conclusione indagini ex art. 415 bis c.p.p. nel citato procedimento (Omissis).

Ne’ può trascurarsi che la motivazione della sentenza sul programma criminoso appare viziata da un’iperbole logica, giacché la Corte territoriale – come si è già detto – ha imputato ai vertici della locale l’attività legata agli stupefacenti, contestata invece al solo N., peraltro quale componente di un’altra associazione, diversa da quella ascritta ai ricorrenti nel presente processo.

In effetti, le argomentazioni della sentenza sul punto sono illogiche e carenti nella parte in cui fanno riferimento a un “programma” ma indicano solo fatti singoli, ritenuti collegati pur in assenza di evidenze in tal senso, giacché risultano valorizzati elementi in maniera parcellizzata, per cui, ove si consideri che manca del tutto anche il riferimento alla predisposizione dei luoghi e mezzi necessari al raggiungimento degli obiettivi illeciti del sodalizio (pur ampiamente prospettata nel capo di imputazione, il cui testo è stato sopra riportato), è evidente la necessità di un annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale, perché si provveda a colmare le suindicate lacune motivazionali, tenendo conto, in via prioritaria, che in un caso come quello in esame, nel quale l’atteggiamento intimidatorio non ha mai assunto connotazioni esplicite, tantomeno spettacolari, non si è mai estrinsecato nella commissione di reati tipicamente e tradizionalmente ricollegati al fenomeno mafioso (omicidi, estorsioni, minacce, danneggiamenti…), e neppure ha portato alla condanna degli imputati per “reati- scopo” di qualsivoglia natura, è evidente che le azioni compiute dai componenti l’associazione in tanto possono essere considerate rilevanti sotto il profilo della loro capacità di integrare l’elemento costitutivo del “metodo mafioso”, in quanto possano essere ritenute di per sé evocative della fama criminale dell’associazione stessa.

Ma, affinché quella “fama criminale” possa essere fatta derivare dalla “spendita del nome” della ‘ndrangheta calabrese, occorre che si provi che il tessuto sociale di riferimento (lontano dalla Calabria), anche in assenza di specifici atti “intimidatori”, sia automaticamente in grado di recepire il messaggio che quel collegamento evoca.

6. E’ necessario pure dare atto della fondatezza dei rilievi difensivi secondo i quali nel ragionamento della Corte territoriale si annida un ulteriore errore nell’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. laddove, nell’esaminare la struttura dell’organizzazione criminosa di cui intende provata l’esistenza, sfugge al necessario vaglio, già obliterato dal Tribunale, della sussistenza dei necessari “indici” di carattere strutturale del sodalizio che, definito quale “neoformazione”, viene valutato con i parametri della associazione non tradizionale o straniera e non, come invece, avrebbe dovuto, quale locale di ‘ndrangheta.

Come si è già rilevato, il riferimento alle piccole dimensioni della struttura farebbe, per ciò solo, venire meno anche la necessità dell’organizzazione gerarchica, il conferimento delle “doti” e dei compiti predefiniti degli adepti (pag. 530) con un ragionamento ictu oculi illogico rispetto al richiamo, da parte della Corte territoriale, alla struttura associativa ‘ndranghetistica, pur nella forma di mafia delocalizzata che detti requisiti, invece, deve possedere per poterne ritenere l’esistenza.

La sentenza impugnata, descrivendo la struttura della “locale”, fa riferimento a diverse definizioni quali “microassociazione”, “una piccola compagine criminale” (pag. 551), “un gruppo di ridotte dimensioni certamente già fornito da un nucleo consistente di fiancheggiatori ma certamente ancora di recente costituzione” (pag. 555), un sodalizio “di recente formazione dove la consumazione di reati comunemente indicati quali delitti “spia” dell’operatività dell’associazione criminosa (estorsione, violazione del t. u. in materia di sostanze stupefacenti delitti contro l’amministrazione della giustizia) è certamente episodica, e comunque “riservata” ai vertici (i due N.; D.D.M.F.) salvo sporadici episodi di imputazioni elevati a carico di fiancheggiatori” (pag. 555); una locale “in uno stadio ancora pienamente evolutivo” (pag. 558), “un gruppo in “prudenziale” via di espansione” (pag. 560), “un nascente clan” (pag. 566), “un gruppo di giovane formazione” (pag. 586), “una neocostituita cellula” (pag. 586) e, nella parte motiva dedicata alla ritenuta inammissibilità dell’appello del Pubblico Ministero, come “fenomeno palesemente costituente un work in progress” (pag. 574). Inoltre, la sentenza di appello definisce la “locale” valdostana un gruppo in “prudenziale” via di espansione che ha scelto di concentrarsi, come fine, sull’infiltrazione nel settore politico istituzionale (pag. 560); finalità ritenuta rafforzamento della capacità operativa dell’associazione (pag. 625).

Così delineate le definizioni attribuite dalla Corte territoriale ai fatti oggetto del processo, è evidente la violazione di legge in cui è incorsa la sentenza impugnata: nel trarre le conclusioni dalla valutazione delle risultanze processuali in ordine alla sussistenza della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. la sentenza finisce per fare riferimento a elementi riconducibili solo ad atti, meramente preparatori, diretti alla formazione di una associazione per delinquere di stampo ‘ndranghetistico.

Va allora ricordato che anche l’associazione di cui all’art. 416 bis c.p. è un reato di pericolo e, quindi, si perfeziona non appena si è creato il vincolo associativo e si è concordato il piano organizzativo per l’attuazione del programma delinquenziale, del tutto indipendentemente dalla concreta esecuzione dei singoli delitti; ne consegue che detta fattispecie non consente l’ipotizzabilità del tentativo, giacché gli eventuali atti, diretti alla formazione di una associazione per delinquere, o sono meramente preparatori e non interessano la sfera giuridico-penale ovvero hanno il carattere della idoneità ed inequivocità e determinano la consumazione del delitto, perché, dal loro venire ad esistenza, è già compromesso l’ordinato svolgimento della vita sociale e si e’, quindi, attuata la minaccia all’ordine pubblico (si vedano in materia Sez. 6, n. 4294 del 09/10/2014, Rv. 262049; Sez. 1, n. 130 del 07/04/1989, Rv. 182993).

Questa Corte ha sottolineato come la mera esistenza del sodalizio mafioso pone di per sé a rischio i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice, con particolare riguardo all’ordine pubblico, all’ordine economico ed alla libera partecipazione dei cittadini alla vita politica, ma ciò non consente di ritenere sufficiente ad integrare il reato la mera capacità potenziale del gruppo criminale di esercitare la forza intimidatoria, occorrendo invece che il sodalizio faccia effettivo, concreto, attuale e percepibile uso – ancorché non necessariamente con metodi violenti o minacciosi – della suddetta forza (Sez. 6, Sentenza n. 18125 del 22/10/2019, Rv. 279555, che, in motivazione, ha precisato che la capacità intimidatoria deve appartenere all’associazione in quanto tale, non potendosi desumere la stessa dalla sola fama criminale del singolo associato; in senso conforme Sez. 6, Sentenza n. 50064 del 16/09/2015, Rv. 265656; Sez. 2, Sentenza n. 31512 del 24/04/2012, Rv. 254031).

La già citata Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015, Bandiera, Rv. 264471, nel valorizzare la natura di reato di pericolo della fattispecie ex art. 416 bis c.p., sì da rinvenirne gli estremi anche nel caso di “mafia silente”, ha sottolineato che, comunque, è necessario che l’organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione, il livello organizzativo e programmatico raggiunto, lascino concretamente presagire la prossima realizzazione di reati-fine dell’associazione. Ricavando, a contrario, la diversità delle strutture che abbiano sì mutuato l’organizzazione interna ed i rituali di quelle operanti in Calabria, ma che operino non solo in contesti territoriali “vergini” al fenomeno ma anche in totale autonomia, sì da non poter contare sulla forza intimidatrice insita nei sodalizi calabri, né sulle logiche economico delinquenziali di questi ultimi, rendendo così necessario che la neoformazione si guadagni sul campo la sua fama criminale, prima di assurgere al rango di associazione mafiosa.

I suddetti principi sono stati confermati dalla sentenza delle Sezioni Unite Modaffari che – facendo leva sulla locuzione “si avvalgono” – ha escluso una ricostruzione della fattispecie in termini di reato associativo c.d. puro, ossia legato alla mera verifica della costituzione di un gruppo organizzato dotato di un programma criminoso da attuarsi con la forza intimidatrice del vincolo associativo e con lo sfruttamento delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano pur quando alcun effetto di intimidazione sia in concreto prodotto. Evidenziano le Sezioni Unite Modaffari che “con l’art. 416 c.p. il legislatore individua un reato associativo “puro”, dal momento che per la sua configurazione è necessaria esclusivamente una organizzazione funzionale alla realizzazione del programma criminoso; con l’art. 416-bis c.p., invece, attraverso la caratterizzazione del metodo e delle finalità dell’associazione, si finisce per costituire un reato a struttura “mista” o “complessa” del tutto peculiare e che richiede, per la sua configurabilità, la ricorrenza di un quid pluris rispetto alla sola organizzazione pluripersonale e al programma criminoso” (così in motivazione -pag. 12-S.U. sentenza n. 36958/2021).

Inoltre, la sentenza Modaffari “ritiene che, pur non potendosi mettere in dubbio la natura di reato di pericolo, atteso che le finalità programmatiche del sodalizio costituiscono la fonte di un pericolo incombente per l’ordine pubblico, l’ordine economico e la collettività intera in sé considerata e nell’esercizio dei propri diritti, sia necessario prendere le mosse da una corretta ermeneusi della locuzione normativa “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo”. Invero, premesso che la tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416-bis c.p. risiede nelle modalità (che si esprimono nel concetto di metodo mafioso) attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente e non negli scopi che essa intende perseguire, quali delineati nell’art. 416- bis c.p., comma 3 in modo alternativo, per l’integrazione del tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale “forza” e di essersene avvalso. Si supera così l’interpretazione volta a conferire alla locuzione un rilievo solo sul piano soggettivo, ossia come mera intenzione di “avvalersi” e si attribuisce rilievo all’oggettività del metodo mafioso in ossequio ai già menzionati principi di oggettività ed offensività. Forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà costituiscono altrettanti elementi necessari ed essenziali perché possa configurarsi il reato di cui all’art. 416-bis c.p. associativo, come del resto si desume senza possibilità di dubbio dall’uso della congiunzione “e” impiegata nel testo normativo. Cardine della fattispecie è la forza di intimidazione: ciò che viene in rilievo non e’, dunque, un qualunque atteggiamento, pur se sistematico, di sopraffazione o di prevaricazione, ma una vis che, promanante dal vincolo associativo, è capace di generare una condizione di assoggettamento e di omertà. Il profilo relativo alla necessità che la capacità intimidatrice sia formata, esternata ed obiettivamente percepita va tenuto distinto da quello relativo alle modalità (del tutto “libere”) con cui tale capacità si esteriorizza, potendo prescindere da “contenuti” di violenza e minaccia. Si tratta, in altre parole, di una carica intimidatoria, spesso identificata come “fama criminale”, che rappresenta una sorta di “avviamento” grazie al quale l’organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro. Geneticamente, quindi, la forza deve essere riferita all’associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sé, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente (Sez. 6, n. 2402 del 23/06/1999, D’Alessandro, Rv. 214923-01). Ai fini della consumazione del reato, non è necessario che i suddetti strumenti siano utilizzati in concreto dai singoli associati, ma si richiede tuttavia che costoro siano effettivamente nelle condizioni e nella consapevolezza di poterne disporre. La consorteria deve, infatti, potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l’associazione e soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, ad esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione che rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell’associazione. Diviene così necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione, sino a estendere intorno a sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere da singoli atti di intimidazione concreti posti in essere da questo o quell’associato; peraltro, qualora emergano prove di concreti atti di intimidazione e di violenza, esse possono utilmente riflettersi anche sulla prova della forza intimidatrice del vincolo associativo, ma vi si riflettono solo in via derivata, poiché ciò che conta è che, anche mancando la prova di tali atti, l’elemento della forza intimidatrice sia desunto da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica e/o morale (Sez. F, n. 44315 del 12/09/2013, Cicero, Rv. 258637-01)” (così in motivazione S.U. sentenza n. 36958/2021, pagg. 15-16).

7. Le considerazioni sopra evidenziate sui vizi della sentenza impugnata, che afferiscono alla sussistenza del reato associativo, risultano assorbenti con riferimento agli altri profili oggetto delle deduzioni delle difese di R., G. e P..

Esse, peraltro, si profilano assorbenti anche con riferimento alle imputazioni di concorso esterno e di cui all’art. 416 ter c.p., che, ovviamente, presuppongono l’esistenza di un sodalizio di ‘ndrangheta.

7.1. Va qui solo detto, in relazione al ricorso del Procuratore Generale, che esso è inammissibile perché versato in fatto e richiede una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità, a fronte di una sentenza che, in ordine alle assoluzioni di R. e S., ha sviluppato una motivazione congrua ed esente da vizi di travisamento e manifesta illogicità.

7.2. In ordine alla posizione della C. va aggiunto che la Corte territoriale, in sede di rinvio, dopo aver nuovamente esaminato i profili afferenti alla configurabilità nella specie di una associazione di `ndrangheta attenendosi ai principi sopra enunciati, dovrà confrontarsi con le specifiche doglianze proposte con l’atto di appello dall’imputata in ordine alla sua responsabilità, giacché la motivazione della sentenza impugnata sul punto (pagg. 589 e ss) appare carente (ove si consideri che una corposa parte di essa è costituita dall’integrale riferimento al contenuto di intercettazioni) e viziata da manifesta illogicità, soprattutto tenuto conto delle diverse valutazioni fatte sulla posizione dell’imputato S..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Torino. Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale.

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