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Misure di prevenzione: il mancato rispetto delle leggi non integra la violazione prevista dall’art. 75 D.Lgs. 159/2011 e può essere valutato solo per l’aggravamento della misura (Cass. Pen. Sez. Unite – 40076/17)

5 Set 2017 - Sentenze


In tema di violazione della misura di prevenzione (reato previsto dall’art. 75 D. Lgs. 159 del 2011), la stessa ha rilevanza delittuosa solo per la violazione delle prescrizioni specifiche (ad esempio l’obbligo di soggiorno) e non può essere configurata per il precetto del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi”, in quest’ultimo caso nemmeno nell’ipotesi di commissione di illecito penale.
Tali circostanze al più possono essere valutate per un aggravamento della misura.

 

Corte di Cassazione, sez. Unite Penale, sentenza 27 aprile 2017 – 5 settembre 2017, n. 40076

Presidente Canzio – Relatore Fidelbo

 

RITENUTO IN FATTO

1. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di appello di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza emessa il 27 aprile 2016 dal Tribunale di Enna in sede di giudizio abbreviato, ha confermato la responsabilità di A. P. in ordine ai delitti di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale (art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011) e di lesioni personali aggravate (art. 582 e 585, secondo comma, n. 2, cod. pen.), riducendo la pena ad un anno e quattro mesi di reclusione, con il riconoscimento della continuazione tra i due reati.

All’imputato è stato contestato di aver contravvenuto «alla prescrizione impostagli di vivere onestamente rispettando le leggi, commettendo il reato di lesioni»: avrebbe colpito con un bastone R. P., cagionandogli una ferita al gomito destro e vari ematomi, fatto commesso il 23 marzo 2016, mentre si trovava sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno, disposta dal Tribunale di Enna con il decreto n. 5 del 27 maggio 2006, misura successivamente aggravata con provvedimento del 25 settembre 2008. Per questi fatti, come già precisato, è stato ritenuto responsabile, oltre che del reato di lesioni, del delitto di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale (art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011), per aver trasgredito alle prescrizioni, imposte con la stessa misura di prevenzione, di vivere onestamente e di rispettare le leggi.

2. Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo due motivi.

Con il primo denuncia l’erronea applicazione dell’art. 99, quarto comma, cod. pen. e il connesso vizio di motivazione, in quanto la Corte di appello avrebbe ritenuto sussistente la recidiva, omettendo ogni accertamento sulla pericolosità dell’imputato e sulla sua incidenza in concreto, desumendola implicitamente dal fatto della sottoposizione alla misura della sorveglianza speciale, peraltro applicata nel 2006 e interrotta da diversi periodi di detenzione.

Con il secondo motivo assume che i giudici di secondo grado, nel rideterminare la pena, hanno indicato per le lesioni personali, ritenute in continuazione con l’altro reato, una pena più grave di quella stabilita dal primo giudice. In questo modo sarebbe stato violato l’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., dovendo riferirsi il divieto di reformatio in peius non solo alla pena complessiva, ma anche a quella applicata ai singoli reati-satellite.

3. Con decreto del 14 marzo 2017 il Primo Presidente della Corte di cassazione ha assegnato d’ufficio il ricorso alle Sezioni Unite penali, ai sensi dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen.

Nel provvedimento di assegnazione si fa riferimento alla sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, che, intervenendo sulla disciplina delle misure di prevenzione personali, ritenuta, sotto alcuni profili, in conflitto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ha tra l’altro affermato il deficit di precisione e prevedibilità delle prescrizioni previste dall’art. 5 legge n. 1423 del 1956 (corrispondente all’attuale art. 8, comma 4, d.lgs. n. 156 del 2011), proprio in relazione all’obbligo rivolto al sorvegliato speciale di “vivere onestamente e rispettare le leggi”.

In previsione delle possibili ricadute della decisione della Corte EDU sugli obblighi imposti al sorvegliato speciale e, di conseguenza, sulla tipicità della fattispecie di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, nonché sulla stessa configurabilità del reato in punto di violazione della prescrizione di vivere onestamente e rispettare le leggi, la questione è stata ritenuta di speciale importanza, anche per prevenire possibili contrasti interni alla giurisprudenza di legittimità.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite può essere così sintetizzata:

“Se la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. cit., abbia ad oggetto anche le violazioni delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi»”.

2. La questione trova la sua ragione nel rilievo che assume la definizione delle condotte prese in considerazione dall’art. 75 cit., per verificarne la conformità ai principi di tipicità della fattispecie penale e a quelli di precisione, determinatezza e tassatività delle norme incriminatrici, al fine di individuare opzioni ermeneutiche costituzionalmente e convenzionalmente orientate, che, inoltre, consentano di prevenire possibili contrasti in seno alla giurisprudenza di legittimità.

L’occasione per verificare la coerenza di una giurisprudenza di legittimità che, costantemente, ha ritenuto che la prescrizione di vivere onestamente rispettando le leggi integrasse il reato previsto dall’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ora trasfuso nel nuovo art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 – in perfetta linea di continuità normativa con la precedente fattispecie (cfr. Sez. 5, n. 49464 del 26/06/2013, Minnella, Rv. 257933) -, è offerta dalla recente sentenza della Corte EDU, GC, 23/02/2017, De Tommaso c. Italia, in rapporto alle affermazioni che, direttamente o indirettamente, possono afferire al reato previsto dall’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, oggetto del presente ricorso.

3. L’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, che riproduce pressoché integralmente l’art. 9 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, è una norma penale di chiusura del sistema, posta a tutela delle misure di prevenzione personali. Il comma 1 prevede un’ipotesi contravvenzionale – con una pena da tre mesi ad un anno – che si riferisce alla violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale c.d. semplice; il comma 2, invece, contiene una più grave fattispecie delittuosa, che punisce con la reclusione da uno a cinque anni l’inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o con il divieto di soggiorno.

L’attuale formulazione corrisponde a quella introdotta con il decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, contenente misure urgenti contro il terrorismo internazionale; ma prima ancora l’art. 9 cit. era stato sottoposto ad una serie di interventi manipolativi: inizialmente, dall’art. 8 legge 14 ottobre 1974, n. 497, che è intervenuto sulla disposizione contravvenzionale introducendo l’ipotesi dell’inosservanza della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno; poi dall’art. 12 legge 13 settembre 1982, n. 646, che ha trasformato l’originaria contravvenzione in delitto, punito con una pena da due a cinque anni di reclusione; infine, dall’art. 23 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, che ha previsto, tra l’altro, la possibilità di arresto anche fuori dei casi di flagranza.

Prima della riforma del 2005, la violazione delle prescrizioni determinate nel provvedimento del tribunale che aveva disposto l’applicazione della misura della sorveglianza speciale, non era punita dall’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ma dall’art. 12 della medesima legge, con l’effetto che il sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo del soggiorno, che violasse tale obbligo e le relative prescrizioni, rispondeva di due autonomi reati: quello previsto dall’art. 9, secondo comma, legge n. 1423 del 1956 (come sostituito dalla legge n. 356 del 1992), che puniva con la reclusione da uno a cinque anni la condotta consistente nell’inosservanza della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno; quello di cui all’art. 12, primo comma, della medesima legge, che puniva con l’arresto da tre mesi ad un anno l’inosservanza delle prescrizioni dirette alla persona sottoposta all’obbligo del soggiorno.

E’ con la citata normativa del 2005 che la norma penale in esame acquista l’attuale struttura: infatti, viene abrogato l’art. 12 legge n. 1423 del 1956 e le violazioni delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale, con obbligo o divieto di soggiorno, vengono trasferite nel secondo comma dell’art. 9 legge cit., con l’effetto di trasformare le condotte inottemperanti a tali prescrizioni in ipotesi delittuose. La violazione di un qualunque obbligo inerente alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, anche se diverso dal divieto di recarsi fuori del comune di soggiorno, integra l’ipotesi delittuosa e non più quella contravvenzionale. Solo le inosservanze agli obblighi commesse dal sorvegliato speciale non sottoposto all’obbligo vengono punite a titolo di contravvenzioni ai sensi dell’art. 9, primo comma, legge n. 1423 del 1956.

4. Il percorso normativo che si è sintetizzato evidenzia come il legislatore del 2005, nel riformare la delicata materia delle misure di prevenzione, ha compiuto una scelta volta ad un deciso inasprimento del trattamento sanzionatorio delle condotte penalmente illecite riguardanti le inosservanze alla misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno; scelta che è stata ribadita con il codice antimafia del 2011, in cui si è riprodotto l’art. 9 cit., come modificato nel 2005, nell’attuale art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, replicando anche la previsione della possibilità di arresto fuori dei casi di flagranza.

In sostanza, il comma 2 dell’art. 75 punisce come delitto ogni tipo di inosservanza inerente alla sorveglianza speciale c.d. qualificata, sia che riguardi obblighi, sia che concerna prescrizioni. Tale equiparazione di condotte, che possono presentarsi in concreto con un differente grado di offensività, è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla sentenza n. 161 del 2009 della Corte costituzionale, che, riferendosi all’art. 9 cit., ha giustificato l’inasprimento sanzionatorio che è derivato da tale equiparazione, in quanto riguardante «soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee». In altri termini, si è ritenuto che il legislatore abbia correttamente esercitato la sua discrezionalità in maniera ragionevole, in un settore che si rivolge a soggetti ritenuti portatori di una particolare pericolosità criminale e nei cui confronti si giustifica la previsione di trattamenti sanzionatori severi in caso di violazioni di obblighi e di prescrizioni alle misure di prevenzione, anche al fine di garantire l’effettività dei controlli da parte dell’autorità di pubblica sicurezza.

Anche la giurisprudenza della Corte di cassazione ha avuto modo di sottolineare come il legislatore abbia cercato di rendere effettivo il controllo sui soggetti ritenuti pericolosi, «rendendo cogente l’obbligo di soggiorno» e neutralizzando «sul nascere le condotte devianti», giustificando il più grave trattamento sanzionatorio nella misura in cui è riferito a soggetti ritenuti portatori di una maggiore pericolosità rispetto a chi viene sottoposto alla sorveglianza speciale c.d. semplice (cfr. Sez. 1, n. 2217 del 13/12/2006, dep. 2007, Laurendino, Rv. 235899).

5. Per quanto riguarda il contenuto, l’art. 75 è strutturato secondo la tecnica per relationem, attraverso l’integrale e indistinto richiamo agli “obblighi” e alle “prescrizioni”, che sono quelli contenuti nell’art. 8 del d.lgs. 159 del 2011 – che sostanzialmente riproduce l’art. 5 legge n 1423 del 1956 – dimostrando, da un lato, l’inscindibile nesso che lega tale norma incriminatrice con la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, dall’altro, lasciando all’interprete la verifica sull’ambito del richiamo, se cioè la norma si riferisca o meno a tutte le prescrizioni e obblighi indicati.

Infatti l’art. 8 indica un intero catalogo di obblighi e di prescrizioni che il tribunale impone ogni qualvolta applichi la misura della sorveglianza speciale.

Accanto alle prescrizioni contenute nel comma 3, che vengono imposte ai soggetti indiziati di «vivere con il provento di reati», con cui si invita il destinatario della misura a ricercare un lavoro, a fissare la propria dimora, a darne comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza e a non allontanarsene senza previo avviso alla medesima autorità, è prevista, nel successivo comma 4, una teoria di prescrizioni che il tribunale deve “in ogni caso” disporre nei confronti del sorvegliato speciale. E cioè: a) vivere onestamente; b) rispettare le leggi; c) non allontanarsi dalla dimora senza preavvisare l’autorità di pubblica sicurezza; d) non associarsi abitualmente a chi ha subito condanne o è sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza; e) non rincasare la sera più tardi e non uscire la mattina più presto di una data ora e senza comprovata necessità e comunque senza averne dato tempestiva notizia all’autorità di pubblica sicurezza; f) non detenere e non portare armi; g) non partecipare a pubbliche riunioni.

Inoltre, nel caso in cui sia disposta la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno il tribunale può prescrivere le misure indicate nel comma 6 dell’art. 8, che impongono di non andare lontano dall’abitazione scelta senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza e di presentarsi alla medesima autorità nei giorni indicati ed a ogni chiamata di essa.

Infine (comma 5), è attribuita al tribunale la facoltà di ingiungere altre prescrizioni che reputi necessarie «avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», tra cui, in particolare, il divieto di soggiorno in uno o più comuni o province ovvero il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi frequentati abitualmente da minori (quest’ultimo divieto riguarda i soggetti di cui all’art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 159 del 2011).

Si tratta di una tipologia assai varia di prescrizioni e di obblighi, che la legge reputa funzionali per l’effettività della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, sia semplice che qualificata, fermo restando che la qualità soggettiva dell’agente costituisce il discrimine in caso di inosservanza, in quanto il sorvegliato “semplice” viene punito con la contravvenzione prevista dall’art. 75, comma 1, mentre la condotta del sorvegliato “qualificato”, che violi una di queste prescrizioni, è sanzionata con il delitto di cui al comma 2 del medesimo articolo.

6. Tra le condotte inottemperanti punite dal comma 2 dell’art. 75 sembrerebbero ricomprese, per effetto del richiamo ob relationem, anche le prescrizioni di “genere” relative al «vivere onestamente» e «rispettare le leggi», che si distinguono dalle prescrizioni “specifiche”, riferibili ad un facere direttamente indicato dalla norma – come ad esempio nel caso del divieto di allontanarsi dalla dimora, di detenere e di portare armi, di associarsi a determinate persone o all’obbligo di permanenza in casa -, proprio per la mancanza di determinatezza della condotta imposta. Nell’abrogato art. 5 legge n. 1423 del 1956 era contenuta una terza prescrizione di genere, consistente nel «non dare ragioni di sospetto», non riproposta nella legge del 2011.

6.1. Il contenuto generale di tali prescrizioni, anche di alcune di quelle considerate “specifiche”, è stato sottoposto in passato all’esame della Corte costituzionale per contrasto con il principio di determinatezza, contrasto che è stato sempre escluso.

Così, con riferimento alle prescrizioni di non associarsi a persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di sicurezza o di prevenzione e di non partecipare a pubbliche riunioni, la Corte costituzionale ha affermato che esse si informano ad un rigoroso criterio di necessità, come risulta dalle ristrette e qualificate categorie di individui cui la sorveglianza speciale si rivolge e dal fatto che tale misura può essere applicata solo dopo che siano risultate senza effetto le diffide del questore (sent. n. 27 del 1959). La Corte ha, inoltre, ribadito che le due prescrizioni «si ispirano alla direttiva fondamentale dell’attività di prevenzione, cioè tenere lontano l’individuo sorvegliato dalle persone o dalle situazioni che rappresentano il maggior pericolo».

Con l’ordinanza n. 354 del 2003 la Corte è ancora intervenuta sulle prescrizioni, in particolare sulla previsione – ora non più contemplata – di «non dare ragioni di sospetto», distinguendo tra prescrizioni di specifiche e qualificate condotte, puntualmente descritte dalla norma, che, prevedendo precisi obblighi, assumono valore precettivo, e “prescrizioni di genere”, riconducibili al paradigma dell’honeste vivere, precisando che «sono anch’esse funzionali alla ratio essendi della sorveglianza speciale, ma non sono certo qualificabili alla stregua di specifici obblighi penalmente sanzionati». Alla luce di tale distinzione, la Corte ha ricondotto al paradigma dell’honeste vivere la prescrizione di “non dare ragione di sospetti”, quale proiezione esteriore del comportamento di chi osservi il più generale precetto, costituzionalmente imposto a chiunque, di “vivere onestamente”.

Più recentemente, la Corte costituzionale (sent. n. 282 del 2010) si è nuovamente pronunciata sulla conformità al principio di tassatività e determinatezza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”. Quanto alla prima, richiamando la precedente ordinanza n. 354 del 2003, ha rilevato che, se considerata isolatamente, la stessa non appare qualificabile quale obbligo penalmente sanzionato, trattandosi di una prescrizione generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati. Tuttavia, se la si considera nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dall’art. 5 legge n. 1423 del 1956, e quale elemento di una fattispecie integrante il reato proprio di cui all’art. 9, secondo comma, della stessa legge, tale prescrizione assume un contenuto più preciso, «risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di “vivere onestamente” si concretizza e si individualizza».

La Corte ha, inoltre, escluso l’indeterminatezza della prescrizione di “rispettare le leggi”, in quanto la stessa si riferisce al dovere imposto al sottoposto alla misura preventiva di rispettare «tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano, cioè, di tenere o di non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia indice della già accertata pericolosità». Ad avviso della Corte, il carattere generale di tale obbligo, di per sé riguardante tutta la collettività, da un lato, non determina la genericità del contenuto della prescrizione in esame e, dall’altro, conferma l’esigenza di prescriverne il rispetto alle persone nei cui confronti è stato formulato, con le garanzie proprie della giurisdizione, il giudizio di grave pericolosità sociale.

6.2. Su un piano analogo si è mossa anche la Corte di cassazione che, escludendo ogni ipotesi di deficit di determinatezza della norma, ha costantemente affermato che il delitto di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 – così come prima quello previsto dall’art. 9 legge n. 1423 del 1956 – è integrato da qualsiasi violazione degli obblighi e delle prescrizioni imposte con la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno. Secondo questa giurisprudenza il riferimento sia agli obblighi che alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale qualificata renderebbe manifesta la volontà del legislatore di sottoporre a un trattamento sanzionatorio più rigoroso tutte le infrazioni commesse da colui al quale, in ragione della sua maggiore pericolosità, sia stata applicata la misura di prevenzione più grave (Sez. 1, n. 47766 del 06/11/2008, Lungari, Rv. 242748; Sez. 1, n. 8412 del 27/01/2009, Iuosio, Rv. 242975; Sez. 7, n. 11217 del 29/01/2014, Polimeni, Rv. 264477).

Inoltre, fatta salva qualche lontana decisione, è ormai stabile l’orientamento che ritiene sia la sussistenza del concorso formale, ex art. 81, primo comma, cod. pen., tra i reati comuni commessi dal sorvegliato speciale durante la sottoposizione alla misura e il reato proprio di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, sia la consumazione di quest’ultimo a seguito della commissione di un illecito amministrativo.

Si è quindi affermata la sussistenza del concorso formale tra ogni singolo reato commesso dal sorvegliato speciale e la simultanea violazione dell’art. 9, legge n. 1423 del 1956, con riferimento alla violazione delle prescrizione di “vivere onestamente e rispettare le leggi”, in ragione della diversità dei beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici (Sez. 1, n. 26161 del 20/06/2012, Albini, Rv. 253090). Alla luce di tale principio di diritto, è stato ribadito il concorso formale dell’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 con quello di cui all’art. 73 d.lgs. cit., relativo alla guida di un veicolo senza patente o con patente revocata, sospesa o negata (Sez. 6, n. 48465 del 20/11/2013, Grieco, Rv. 257712; Sez. 1, n. 17728 del 02/04/2014, Di Grazia, Rv. 259735; Sez. 6, n. 13427 del 17/03/2016, Pantaleo, Rv. 267214; Sez. 1, n. 1086 del 10/06/2016, Acerra, Rv. 268839).

Il rischio di esiti irrazionali conseguenti all’accoglimento della soluzione del concorso formale è stato escluso, rilevando che, ove il sorvegliato speciale commetta uno dei reati specificamente previsti dalla norma, gli effetti sanzionatori restano mitigati dalla disciplina di cui all’art. 84 cod. pen., che esclude l’applicabilità del regime punitivo previsto per il concorso formale (Sez. 1, n. 26161 del 20/06/2012, Albini).

La sussistenza del reato di violazione dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi è stata ritenuta anche nel caso di improcedibilità del reato per difetto di querela (Sez. 1, n. 39909 del 18/10/2007, Greco, Rv. 237910; Sez. 1, n. 2933 del 11/10/2013, Mazzè, Rv. 258386) e nell’ipotesi di detenzione di sostanze stupefacenti prive di un sufficiente quantitativo di principio attivo (Sez. 1, n. 46876 del 12/11/2009, Brancato, Rv. 245672).

Come si è anticipato, il reato in questione è ritenuto integrato non solo dalle violazioni che configurano distinte fattispecie criminose, ma anche dalla consumazione di un illecito amministrativo: in questi casi la giurisprudenza assume che anche la commissione di siffatti illeciti costituisce inosservanza della prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi, con l’unico limite della «concreta lesione o messa in pericolo dell’interesse all’ordine e alla sicurezza pubblica tutelato dalla norma incriminatrice».

Sono state ritenute condotte costituenti il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale la guida di un motociclo senza casco, la guida di autovettura priva di targa, la guida di ciclomotore con patente di guida revocata (cfr. Sez. 1, n. 30995, del 04/07/2012, Rizzo; Sez. 1, n. 16213 del 25/02/2010, Acri, Rv. 247481; Sez. 1, n. 40819 del 14/10/2010, Basoni, Rv. 248466).

Nella maggior parte dei casi, la prescrizione di “vivere onestamente” viene considerata congiuntamente a quella di “rispettare le leggi”, quasi si trattasse di due facce della stessa medaglia (ex plurimis: Sez. 1, n. 39909 del 18/10/2007, Greco, Rv. 237910; Sez. 1, n. 8496 del 05/02/2009, Giudice, Rv. 243453; Sez. 1, n. 46876 del 12/11/2009, Brancato, Rv. 245672; Sez. 1, n. 40819 del 14/10/2010, Basoni, Rv. 248466; Sez. 1, n. 26161 del 20/06/2012, Albini, Rv. 253090; Sez. 1, n. 2933 del 11/10/2013, Mazzè, Rv. 258386; Sez. 6, n. 13427 del 17/03/2016, Pantaleo, Rv. 267214; Sez. 1, n. 1086 del 10/06/2016, Acerra, Rv. 268839). Infatti, non si registrano decisioni che abbiano fatto riferimento esclusivo alla violazione della prescrizione dell’honeste vivere.

7. Rispetto ad una giurisprudenza di legittimità così monolitica, deve segnalarsi la presenza di alcune decisioni, minoritarie e risalenti, formatesi in un contesto normativo diverso, prima delle modifiche del 1992 in materia di contrasto alla criminalità mafiosa, che hanno tentato di individuare le differenze tra i diversi obblighi e le prescrizioni, sostenendo, tra l’altro, che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche integrano le condotte punibili dal reato di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ma solo quelle che si risolvono nella «vanificazione sostanziale» della misura di prevenzione (in questo senso, Sez. 1, n. 793 del 20/03/1985, De Salvia; inoltre, cfr. Sez. 2, n. 279 del 05/02/1969, Suigo, che ha escluso l’integrazione del reato a seguito di violazioni delle prescrizioni generiche).

7.1. Peraltro, questa giurisprudenza è stata ripresa e sviluppata recentemente dalle Sezioni Unite che, chiamate a risolvere la questione se la mancata esibizione, a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza, della carta precettiva che il sorvegliato speciale deve portare con sé integri la contravvenzione o il delitto contemplati nell’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, commi 1 e 2, d.lgs. 159 del 2011) oppure la contravvenzione prevista dall’art. 650 cod. pen., si sono sforzate di individuare la “specificità” caratterizzante gli obblighi e le prescrizioni la cui violazione può configurare il reato in esame: si è così affermato che con l’obbligo si impone al destinatario un aliquid facere o non facere, mentre con la prescrizione si prevede un quomodo facere, nel senso che presuppone un obbligo, precisandone le modalità di adempimento (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia). Tale distinzione, seppure riferita a violazioni che il legislatore ha equiparato quoad poenam, ha consentito alle Sezioni Unite di poter affermare, che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche previste dall’art. 5 legge n. 1423 del 1956 sono idonee ad integrare la condotta punibile ai sensi dell’art. 9 della stessa legge, ma solo quelle che si risolvono «nella vanificazione sostanziale della misura imposta», ricollegandosi così a quel filone giurisprudenziale cui si è fatto prima riferimento.

Perché le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni siano rilevanti è necessario, quindi, che si tratti di «condotte eloquenti in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle (significative) misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano e connotano»: una elusione della misura che non arrivi alla sua sostanziale vanificazione non dovrebbe essere ricompresa nell’ambito della norma incriminatrice prevista oggi dall’art. 75 d.lgs. 159 del 2011 e ieri dall’art. 9 cit.. A tali conclusioni la sentenza Sinigaglia perviene richiamando espressamente i principi di offensività e di proporzionalità, in base ai quali esclude la possibilità di «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto qualitativamente pericoloso». In questa materia le Sezioni Unite – che nel caso ad esse sottoposte hanno ritenuto che la mancata esibizione della carta precettiva configuri solo la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen. – hanno ribadito la necessità di una «stretta correlazione e proporzione» tra la misura restrittiva e lo scopo perseguito, mostrando di tenere ben conto della giurisprudenza europea (Corte EDU, 06/04/2000, Labita c. Italia).

Tuttavia, la sentenza Sinigaglia riconosce che nei confronti di categorie di persone ritenute pericolose vi possa essere un surplus di controllo e una maggiore severità repressiva, finendo così per ammettere che la violazione dei precetti del vivere onestamente e di rispettare le leggi possa, in astratto, costituire un «comportamento sintomatico della persistenza di un animus pravus e, quindi, di una prevedibile, futura condotta delittuosa».

In ogni caso, questa sentenza supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di “vanificazione” della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le “inottemperanze” del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità.

7.2. Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un “annullamento” di fatto della misura. La norma incriminatrice è posta a tutela dell’interesse dell’autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell’ordine e della sicurezza pubblica, sicché deve escludersi ogni automatismo nella sua applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato. In sostanza, non ogni “inottemperanza” del sorvegliato speciale giustificherà la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che costituiscono indice di una volontà diretta ad eludere la misura di prevenzione personale. Del resto la Corte costituzionale ha da tempo indicato la necessità di operare una selezione delle condotte, negando la rilevanza di condotte che non siano in qualche modo sintomatiche della pericolosità già accertata in sede di giudizio di prevenzione (Corte cost. n. 27 del 1959).

Dal principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza da ultimo citata deve trarsi un canone generale di giudizio idoneo a “calibrare” sulla pericolosità del soggetto le singole prescrizioni.

7.3. Nel presente procedimento tali opzioni interpretative sono state in parte utilizzate dalla Procura generale presso questa Corte che, nella memoria depositata, ha valorizzato i contenuti della sentenza Sinigaglia, assieme agli approdi della giurisprudenza costituzionale: si sostiene che per le prescrizioni c.d. generiche il riferimento vada fatto alle norme precettive, alla cui violazione l’ordinamento «ricolleghi l’applicazione di una sanzione penale o di una rilevante sanzione amministrativa (che superi la soglia riservata alle più banali infrazioni)»; in tali casi, le condotte devianti poste in essere dal sorvegliato speciale saranno perseguite e sanzionate «come segno eloquente della sua posizione di soggetto persistentemente e pervicacemente pericoloso per la società», purché abbiano concretamente manifestato la volontà di sottrarsi alle misure destinate ad elidere la sua potenziale pericolosità.

7.4. L’impostazione “evolutiva” seguita dalla sentenza Sinigaglia, così come valorizzata dalla Procura generale, tende a circoscrivere l’applicazione dell’art. 75 d.lgs. 159 del 2011 solo in presenza di condotte che danno luogo a reati o a gravi illeciti amministrativi, quali azioni sintomatiche della volontà di eludere la misura di prevenzione. Tuttavia, mentre una tale verifica funzionale è efficace rispetto alle prescrizioni specifiche, riferita alle prescrizioni generiche mostra alcuni limiti.

Innanzitutto, insistendo sulla strumentalità della condotta inottemperante rispetto al contenuto del provvedimento applicativo della sorveglianza speciale e, quindi, sulla sintomaticità della condotta posta in essere per eludere la misura, si finisce per attribuire al giudice penale una forte discrezionalità nell’applicazione della fattispecie, che renderebbe ancora più incerta e imprevedibile la condotta contemplata dalla norma incriminatrice; inoltre, sarebbe caratterizzata da eccessiva discrezionalità sia l’individuazione dei reati – ad esempio, si porrebbe il problema se includervi anche quelli colposi – sia degli illeciti amministrativi, dovendosi distinguere quelli più gravi la cui violazione darebbe luogo al reato di cui all’art. 75 cit..

Ma, soprattutto, si tratta di una soluzione che non risolve il problema principale, che è quello del deficit di determinatezza del reato di cui all’art. 75 cit., in relazione alle violazioni delle prescrizioni generiche dell’honeste vivere e del rispettare la legge, problema posto in termini netti dalla sentenza De Tommaso della Corte EDU.

8. Con questa decisione i giudici di Strasburgo, investiti della questione relativa alla conformità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno agli artt. 5, 6 e 13 CEDU, nonché all’art. 2 Prot. 4 CEDU, hanno espresso un giudizio fortemente critico sulla “qualità” della legge n. 1423 del 1956, giudizio che, necessariamente, si estende al d.lgs. n. 159 del 2011, nella misura in cui questo recepisce i contenuti fondamentali della disciplina originaria.

Prescindendo da ogni approfondimento della pronuncia là dove nega fondamento legale alla misura applicata al proposto, riconoscendo la violazione della libertà di circolazione e di movimento, tutelata dall’art. 2 Prot. 4 CEDU, in questa sede si deve sottolineare che la Corte europea ha riconosciuto l’estrema vaghezza e genericità del contenuto delle prescrizioni imposte all’interessato di «vivere onestamente e rispettare la legge», nonché di «non dare adito a sospetti» (riferimento quest’ultimo che, come si è visto, è venuto meno nella nuova formulazione dell’art. 8 d.lgs. 159 del 2011). I giudici europei, oltre all’indeterminatezza della prescrizione di «vivere onestamente», hanno rilevato che il dovere di «rispettare le leggi», come interpretato dalla Corte costituzionale, si risolve in un riferimento “aperto” all’intero sistema giuridico italiano, che non fornisce alcuna indicazione delle norme la cui violazione sarebbe indice della già accertata pericolosità.

Nell’offrire un giudizio complessivamente negativo sulla legge n. 1423 del 1956, la Corte EDU ha insistito particolarmente sul concetto di legalità europea, ribadendo la propria giurisprudenza secondo cui il presupposto della conformità alla legge non deve essere inteso come riferito solo al fondamento legale della misura, ma piuttosto alla qualità della legge, che deve essere accessibile alle persone interessate e prevedibile quanto ai suoi effetti. Infatti, i giudici escludono che le restrizioni alla libertà di movimento abbiano una base legale, in quanto né i destinatari (art. 1) né il contenuto delle misure di prevenzione (artt. 3 e 5) sono stati definiti con sufficiente precisione e chiarezza, concludendo che la legge del 1956 non rispetta il requisito di prevedibilità.

Sul requisito della prevedibilità la giurisprudenza della Corte europea ritiene che la qualificazione di una norma come “legge” necessita di una formulazione con sufficiente precisione, in modo da consentire ai cittadini di regolare la propria condotta e di prevedere, se necessario con appropriata consulenza e ad un livello che sia ragionevole in concreto, le conseguenze che possono derivare da una determinata condotta, pur riconoscendo che non possa pretendersi una eccessiva rigidità nella formulazione delle norme, in considerazione del fatto che la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutamento delle circostanze (Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia).

D’altra parte, la Corte costituzionale, anticipando il concetto di “prevedibilità” della legge espresso dalla giurisprudenza europea, ha chiarito che la sufficiente determinazione della fattispecie penale è funzionale tanto al principio di separazione dei poteri, quanto a quello di riserva di legge in materia penale (poiché evita che il giudice assuma un ruolo creativo nell’individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione dell’individuo, cui consente di conoscere le conseguenze giuridico-penali del proprio agire (sent. n. 364 del 1988). In sostanza il principio di determinatezza, implicitamente ricavabile dall’art. 25, secondo comma, Cost., è in funzione della «riconoscibilità ed intelligibilità del precetto penale in difetto dei quali la libertà e sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate» (sent. n. 185 del 1992).

9. Nel giudizio complessivamente critico che la sentenza De Tommaso ha dato alla disciplina delle misure di prevenzione personali, la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011).

Si tratta di una valutazione che la Corte di Strasburgo ha operato sulla base di come tali disposizioni vengono applicate dal giudice nazionale, in rapporto ai diritti tutelati dalla CEDU, dal momento che è quest’ultima che il giudice europeo è chiamato ad adottare. La sentenza in questione non ha determinato e non poteva determinare il significato della legge nazionale, in quanto, come ha chiarito la Corte costituzionale (sent. n. 49 del 2015), spetta al giudice comune l’interpretazione del diritto interno, tenendo conto della giurisprudenza europea.

Nel caso ora sottoposto al loro esame le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono chiamate ad una rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU e subordinata «al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme» (Corte cost., sentenze n. 349 e n. 348 del 2007).

Ne consegue che solo una lettura “tassativizzante” e tipizzante della fattispecie può rendere coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il che inevitabilmente comporta il superamento di una giurisprudenza di legittimità che, fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente con tali problematiche.

La citata norma penale utilizza la tecnica del rinvio, richiamando, in modo indistinto, le prescrizioni e gli obblighi che sono indicati in una diversa disposizione (art. 8 d.lgs. cit.), dedicata al contenuto del provvedimento con cui il tribunale dispone la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, ma il richiamo «agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno» può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del «vivere onestamente» e del «rispettare le leggi». Invero, è dubbio che possano considerarsi vere e proprie prescrizioni, al pari di quelle menzionate nella stessa disposizione di cui all’art. 8 d.lgs. n. 159 del 2011, dal momento che non impongono comportamenti specifici, ma contengono un mero ammonimento “morale”, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice.

Del resto, per quanto riguarda la prescrizione di «vivere onestamente» già la Corte costituzionale ne ha riconosciuto l’inidoneità ad essere considerata come un obbligo specifico penalmente sanzionato (ord. n. 354 del 2003; sent. n. 282 del 2010), sebbene tale affermazione è stata riferita alla prescrizione valutata isolatamente.

D’altra parte, l’obbligo di rispettare le leggi si propone in termini talmente vaghi da presentare un deficit di determinatezza e di precisione che lo rende privo di contenuto precettivo. Si tratta di una prescrizione generale, che non indica alcun comportamento specifico da osservare nella misura in cui opera un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato: la formula legale che deriva dal richiamo contenuto nell’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 alla prescrizione di rispettare le leggi non ha la struttura né la funzione di un’autentica fattispecie incriminatrice, dal momento che, da un lato, non consente di individuare la condotta o le condotte dal cui accertamento, nel caso concreto, derivi una responsabilità penale e, dall’altro, attribuisce uno spazio di incontrollabile discrezionalità al giudice.

In realtà, quanto al primo profilo, ciò che difetta è soprattutto la conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale. E non è un caso che la Corte EDU abbia stigmatizzato proprio l’imprevedibilità causata dal generico riferimento al rispetto di tutte le leggi e delle disposizioni la cui inosservanza sarebbe sintomatico indizio del pericolo per la società (sentenza De Tommaso c. Italia).

Sotto l’altro profilo, anche l’interpretazione diretta a restringere la portata della norma alle sole violazioni delle norme penali e degli illeciti amministrativi di maggiore gravità non è in grado di ridimensionare la vasta discrezionalità che verrebbe riconosciuta al giudice nel “comporre” il contenuto della norma incriminatrice, dal momento che potrebbe farvisi rientrare l’inosservanza di condotte colpose, pur di rilievo penale, ovvero operarsi scelte arbitrarie sugli illeciti amministrativi da prendere in considerazione.

Le norme penali sono norme precettive, in quanto funzionali ad influire sul comportamento dei destinatari, ma tale carattere difetta alle prescrizioni di “vivere onestamente e di rispettare le leggi”, perché il loro contenuto, amplissimo e indefinito, non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto. L’indeterminatezza delle due prescrizioni in esame è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi da parte del giudice. Autorevole dottrina, proprio con riferimento al rapporto determinatezza-conoscibilità, ha osservato che qualora una sanzione penale venisse applicata in mancanza della possibilità di conoscere la norma precettiva, a causa della sua indeterminatezza, si avrebbe una situazione in cui «il soggetto che subisce la pena risulterebbe in definitiva strumentalizzato dall’ordinamento a puri scopi di prevenzione generale mediante intimidazione, rivelandosi pertanto l’ordinamento totalmente insensibile a quelle esigenze di tutela della persona che sono espresse e realizzate dalla colpevolezza».

In sostanza, il rapporto che lega la determinatezza della norma penale alla sua prevedibilità e conoscibilità finisce per influire sulla sussistenza stessa della colpevolezza, intesa come possibilità del destinatario di «essere motivato dal diritto». Il difetto di precettività insito nel generico obbligo di rispettare le leggi, che vale per ogni consociato, impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere perseguite. In questa situazione di incertezza il sorvegliato speciale non è in condizione di conoscere e prevedere le conseguenze della violazione di una prescrizione che si presenta in termini così generali. D’altra parte, in presenza di un precetto indefinito l’ordinamento penale non può neppure pretenderne l’osservanza. Ne consegue che il delitto in esame è integrato solo ed esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche, che hanno un autonomo contenuto precettivo.

La rilettura ermeneutica, che in questa sede si offre del reato previsto dall’art. 75, comma 2, d.lgs. cit. e della sua inconfigurabilità in rapporto alle prescrizioni generiche del vivere onestamente rispettando la legge, consente di evitare ogni valutazione circa la necessità di sollevare incidente di costituzionalità della fattispecie penale per l’indeterminatezza della formulazione del precetto sulla base dell’interpretazione della Corte EDU.

10. Se le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011, ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale.

Invero, il discorso vale soprattutto per l’obbligo del rispettare le leggi, dal momento che la prescrizione dell’honeste vivere mai è stata considerata autonomamente, ma sempre congiuntamente con la prima e nel contesto delle altre prescrizioni.

Ebbene, fino ad oggi la violazione dell’obbligo di rispettare le leggi è stato ritenuto reato autonomo, concorrente, ai sensi dell’art. 81, primo comma, cod. pen., con il reato comune commesso dal sorvegliato speciale qualificato, oppure se ne è riconosciuta la consumazione in relazione alla commissione di un illecito amministrativo. In altri termini, l’indeterminatezza del precetto è stata riempita facendo riferimento alla commissione di illeciti penali comuni o di illeciti amministrativi, con la conseguenza che il sorvegliato speciale viene punito due volte per il medesimo comportamento (con la sentenza n. 76 del 1970 la Corte costituzionale, in relazione all’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ha escluso che tale duplicazione della pena sia in contrasto con l’art. 3 Cost.).

Una volta affermato che l’obbligo di rispettare le leggi non integra la norma incriminatrice, il sorvegliato speciale che avrà commesso un reato comune o un illecito amministrativo sarà punito solo per questi, non anche per il delitto di cui al secondo comma dell’art. 75 cit.. La commissione di tali illeciti, almeno di quelli penali, potrà tuttavia avere rilevanza per l’eventuale modifica della misura di prevenzione, ai sensi dell’art. 11 d.lgs. 159 del 2011.

Tale norma prevede che il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione può essere modificato, in senso più restrittivo, su richiesta dell’autorità proponente «quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica o quando la persona sottoposta alla sorveglianza speciale abbia ripetutamente violato gli obblighi inerenti alla misura». La commissione di reati comuni da parte del sorvegliato speciale potrà essere valutata dal giudice come dimostrazione di un atteggiamento non rispettoso dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi, obbligo generico e indeterminato che non può integrare una fattispecie penale, ma può costituire un presupposto per l’aggravamento della sorveglianza speciale, nell’ambito di un giudizio di prevenzione che deve affermare se un soggetto è pericoloso alla luce della sua precedente condotta, confrontata con i nuovi elementi acquisiti a giustificazione dell’aggravamento richiesto (Sez. 1, n. 18224 del 09/01/2015, Concas; Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini).

11. Pertanto, con riferimento alla questione principale oggetto del ricorso, deve essere enunciato il seguente principio di diritto:

“L’inosservanza delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi», da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011. Essa può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione personale”.

13. Può quindi affrontarsi il merito del ricorso proposto.

Il P. è stato ritenuto responsabile non solo del reato di lesioni volontarie, ma anche del reato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, perché, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno, contravveniva alla prescrizione impostagli di vivere onestamente rispettando le leggi, commettendo il reato di lesioni personali.

I motivi del ricorso non investono aspetti relativi all’affermazione di responsabilità, essendo limitati a contestare il trattamento sanzionatorio e, in particolare, la ritenuta incidenza della recidiva. Tali doglianze, che non sono inammissibili, sono comunque riferite al capo della sentenza relativo al reato di cui all’art. 75 cit., sicché il giudizio non deve ritenersi esaurito integralmente in ordine al capo di sentenza concernente la definizione del reato e può essere rilevata l’eventuale causa di non punibilità (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216236).

Facendo applicazione del principio enunciato, sorge l’obbligo dell’immediata declaratoria d’ufficio di non punibilità ai sensi dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., dovendosi affermare l’insussistenza del reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011, dal momento che si è escluso che la violazione alle prescrizioni del vivere onestamente e di rispettare le leggi integri il delitto in oggetto.

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta per la sola rideterminazione della pena in relazione al reato di lesioni personali.

I motivi dedotti nel ricorso devono ritenersi assorbiti.

PQM

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 perché il fatto non sussiste e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Caltanissetta per la rideterminazione della pena in ordine al reato di lesioni personali.

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