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Estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ricorre la seconda ipotesi nel caso in cui l’interesse del terzo non sia costituito da un ingiusto profitto che arrechi danno alla persona offesa (Cass. Pen. Sez. II – 46097/23)

25 Ott 2023 - Sentenze

Estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ricorre la seconda ipotesi nel caso in cui l’interesse del terzo non sia costituito da un ingiusto profitto che arrechi danno alla persona offesa (Cass. Pen. Sez. II – 46097/23)

Il margine differenziale tra l’ipotesi di estorsione (ex art. 629 c.p.) e la più tenue fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (ex art. 393 c.p.) è dato dalla ricorrenza, nella prima ipotesi, dell’ingiusto profitto con altrui danno. Nel caso di terzo che concorra con il titolare della pretesa legittima (poiché giudizialmente tutelabile) al conseguimento della stessa non è sufficiente che il movente dell’agire di questi sia costituito da un interesse ulteriore ed autonomo al fine di indurre la sussumibilità nella più grave fattispecie di estorsione, ma è necessario che la condotta sia finalizzata a far conseguire allo stesso un ingiusto profitto conseguente un danno nei confronti della persona offesa.

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Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 25 ottobre 2023 – 15 novembre 2023, n. 46097

Presidente Rago – Relatore Pardo

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Palermo, con sentenza in data 11 novembre 2022, in parziale riforma della pronuncia del G.U.P. presso il medesimo tribunale del 14-7-2021 riduceva ad anni 4, mesi 8 di reclusione ed C 3334,00 di multa ciascuno le pene inflitte a M. I. e T. G. in ordine al delitto di concorso in estorsione aggravata agli stessi contestato. Gli imputati erano stati incaricati dalla proprietaria di un appartamento, L. E., di sfrattare i conduttori F.-C. che ivi abitavano; le azioni erano state portate a termine con minaccia e violenza nei confronti delle vittime costrette a lasciare libero l’immobile per un solo giorno dopo il quale avevano fatto rientro nella stessa abitazione che detenevano in forza di regolare contratto di locazione.

2 Avverso detta sentenza proponevano ricorso per cassazione i difensori degli imputati; l’Avv.to La Scala per M., deduceva con unico motivo qui riassunto ex art. 173 disp.att. cod.proc.pen. violazione dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen. quanto alla qualificazione giuridica dei fatti contestati nei termini dell’estorsione piuttosto che in quelli corretti dell’esercizio arbitrario ed erronea applicazione dei principi stabiliti dalle Sezioni Unite sul punto; si lamentava in particolare che il giudice di appello aveva dato peso ad un elemento, quello della presunta retribuzione di C 5.000 dell’azione dei due imputati, che era rimasto circostanza del tutto labile ed immaginaria, non sussistendo alcun elemento concreto per ritenere che la proprietaria del bene la L. volesse cedere lo stesso a terzi.

3 L’avv. Termini per T. deduceva con distinti motivi qui riassunti ex art. 173 disp att. cod.proc.pen.:

– violazione dell’art. 606 lett. b), c) ed e) cod.proc.pen. quanto alla qualificazione dei fatti nei termini dell’estorsione ed alla ritenuta sussistenza di un possibile profitto in capo al ricorrente configurante quell’interesse ultroneo che avrebbe determinato la più grave qualificazione giuridica; il T. aveva aderito alla richiesta dei proprietari di liberare l’immobile nella prospettiva del guadagno che non veniva però percepito quale corrispettivo dell’illecita attività bensì quale possibile frutto dell’attività di mediazione per la vendita dello stesso appartamento; proprio tale causale doveva fare escludere il dolo di estorsione ed il significato della stessa doveva desumersi dal contenuto di alcuni messaggi scambiati tra il ricorrente e la proprietaria che venivano in parte riportati;

– violazione di legge e difetto di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza del danno patrimoniale subito dalle persone offese non potendosi tale diminuzione ravvisarsi nelle condizioni patite dalle stesse per una sola notte che non aveva determinato alcuna spendita di somme ed essendo ripresa l’occupazione dell’immobile locato; conseguentemente doveva ritenersi assente uno degli elementi costitutivi il delitto di estorsione.

Infine il ricorrente concludeva ritenendo rilevante la questione già rimessa alla Corte Costituzionale ed oggi già decisa in senso favorevole circa l’attenuante speciale del fatto di speciale tenuità nel delitto di estorsione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono fondati e devono pertanto essere accolti. Ed invero come correttamente richiamato sia dalla sentenza impugnata che da entrambe le impugnazioni, secondo il recente orientamento delle Sezioni Unite il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 – 02); in particolare in motivazione si precisa che: “Deve, quindi, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia”. La suddetta pronuncia precisa quindi che per aversi esercizio arbitrario è necessario che l’agente abbia posto in essere la condotta per la realizzazione di una pretesa giuridica esattamente tutelabile senza travalicarne il contenuto; le Sezioni Unite hanno quindi sottolineato come per aversi esercizio arbitrario è necessario che l’agente ponga in essere una condotta a tutela di un diritto azionabile in sede giudiziaria altrimenti vertendosi nella più grave fattispecie di cui all’art. 629 cod.pen.. Principio questo affermato da quell’inciso secondo cui: “Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967)”.

2. Tanto premesso in ordine al contenuto della pretesa va poi aggiunto che, quanto al concorso dei terzi nei fatti, la stessa pronuncia precisa che il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 -03).

Chiamata a chiarire in motivazione il suddetto concetto si è affermato come: “La giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 cod. pen. nella previsione dell’art. 393 stesso codice – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 cod. pen. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651). 13.2. Questo orientamento va condiviso e ribadito. Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati: – il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo; – il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico. Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni”. E’ pertanto l’interesse proprio del terzo che vale quale elemento distintivo decisivo ai fini della qualificazione ex art. 393 o 629 cod.pen..

3. Così ricostruito il parametro della qualificazione della condotta del terzo che concorre nella condotta del creditore o del titolare di un diritto che si rivolga al soggetto obbligato, va precisato cosa debba essere inteso per interesse proprio del terzo idoneo a determinare la qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 629 cod.pen. piuttosto che dell’art. 393 cod.pen., rimanendo tale nozione non esplicitata dalla pronuncia delle Sezioni Unite cui si intende certamente sempre aderire ed apparendo il tema rilevante per la definizione del caso di specie.

Per la soluzione di tale questione occorre precisare che nella ricostruzione della citata pronuncia del massimo consesso di legittimità l’interesse proprio del terzo è quell’elemento che vale proprio a modificare la qualificazione giuridica da esercizio arbitrario ad estorsione e che pertanto, essendo tale, va individuato alla luce degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 629 cod.pen.; posto infatti che detto elemento diviene essenziale per il mutamento in un titolo più grave di reato per identificarne il contenuto non può che farsi riferimento agli elementi differenziali, costitutivi il delitto più grave e cioè l’estorsione rispetto alla ipotesi di cui all’art. 393 cod.pen.. Si deve, pertanto, affermare che, necessariamente, avuto proprio riguardo agli elementi costitutivi delle diverse fattispecie di cui agli artt. 393 e 629 cod.pen., l’interesse proprio del terzo consiste sempre in un ingiusto profitto con altrui danno con la precisazione che tale danno deve essere procurato mediante l’azione alla persona offesa o ad altri soggetti alla stessa legati.

Quindi l’interesse proprio, idoneo a determinare la qualificazione giuridica più grave deve essere collegato alla realizzazione del reato in danno della vittima e deve costituire un ingiusto profitto che il terzo può avere chiesto alla stessa p.o. od anche a soggetti alla stessa legati. E’ chiaro cioè che, ogni qual volta che il terzo sia stato incaricato dal creditore di recuperare un credito di un determinato importo, abbia poi agito richiedendo alla p.o. un importo superiore a quanto dovuto, trattandosi di importo estraneo al diritto originariamente agito, avendo arrecato un ingiusto profitto con altrui danno, sarà- chiamato a rispondere sempre di estorsione in concorso con l’esercizio arbitrario, proprio perché ha realizzato oltre il diritto originario anche un interesse proprio. Tuttavia, nel caso in cui il terzo abbia richiesto alla persona offesa, esattamente lo stesso oggetto del diritto agito, l’eventuale motivo che possa averlo mosso ad agire, mai oggetto di diretta richiesta alla vittima, la quale -si ripete- viene costretta a versare l’importo esattamente dovuto, può non determinare la differente e più grave qualificazione giuridica. Invero, può avvenire che il creditore abbia promesso una ricompensa al terzo o altro profitto, ovvero che il terzo abbia agito nella prospettiva della realizzazione di un proprio futuro guadagno indiretto, che, in quanto estraneo all’azione delittuosa commessa nei confronti della vittima, non vale a determinare la più grave qualificazione e ciò perché il dolo del terzo, rimane sempre quello di agire esattamente e precisamente per la realizzazione del solo diritto sotteso all’azione e non anche per arrecare danni altrui, con corrispondente ingiusto profitto; così che l’eventuale guadagno sotteso può costituire il prezzo del reato di cui all’art. 393 cod.pen. o il movente del reato, ma non costituisce un interesse proprio diretto, tale da determinare la più grave qualificazione giuridica non arrecando alcun danno altrui. In altri termini, ove il terzo abbia avuto quale motivo dell’azione un interesse proprio mai oggetto di richiesta nei confronti della vittima, dipendente da circostanze del tutto estranee all’azione criminosa, continua a rispondere di esercizio arbitrario pure se possa avere immaginato di ricavare un qualche guadagno dall’azione criminosa. Con plurime pronunce questa Corte di cassazione ha ripetutamente escluso la rilevanza del movente ai fini della sussistenza del reato; si è in particolare affermato come il movente è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l’individuo ad agire; esso va distinto dal dolo, che è l’elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento (Sez. 1, n. 466 del 11/11/1993 (dep. 19/01/1994 ) Rv. 196106 – 01). Il tema è stato anche affrontato con particolare riguardo al delitto di cui all’art. 610 cod.pen. che si differenzia dall’estorsione soltanto per l’elemento del danno patrimoniale e dell’ingiusto profitto; si è difatti affermato come ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare, che costituisce l’antecedente psichico della condotta, cioè il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale (Sez. 5, n. 2220 del 24/10/2022 (dep. 19/01/2023 ) Rv. 284115 – 01). E la irrilevanza del movente ai fini della sussistenza del reato è stata anche affermata in tema di reati contro il patrimonio essendosi stabilito che in tema di danneggiamento, il reato (art.635 cod. pen.) sussiste – con riferimento all’elemento materiale – qualora sia stata cagionata la distruzione di un bene ovvero un deterioramento di una certa consistenza, dovendosi escludere solo nel caso di mancanza di danno strutturale o funzionale della cosa. In ordine all’esistenza del dolo non occorre il fine specifico di nuocere, essendo sufficiente la coscienza e la volontà di distruggere, deteriorare o rendere inservibile (in tutto o in parte) la cosa altrui, senza alcuna rilevanza di movente o finalità (Sez. 5, Sentenza n. 5134 del 05/04/2000 Rv. 216063 – 01). Il tema dell’oggetto del dolo nel delitto di estorsione viene affrontato analogamente anche in dottrina; secondo autorevole parere: “è controversa in dottrina la qualificazione giuridica del dolo necessario per l’integrazione del reato. L’opinione tradizionale considera l’estorsione delitto a dolo specifico sul presupposto che la fattispecie incriminatrice richiede la coscienza e la volontà di coartare un terzo a fare od omettere qualcosa (dolo generico) e lo scopo di conseguire un profitto ingiusto con danno altrui (dolo specifico). A ben vedere, si tratta di tesi infondata, perché il conseguimento dell’ingiusto profitto con altrui danno non sta fuori dal fatto di un reato, ma ne costituisce -come si è visto- addirittura l’evento, che deve essere voluto dall’agente”. Ora indipendentemente dalla qualificazione del delitto, se a titolo di dolo generico o specifico, rimane però chiaro che la volizione dell’agente deve avere ad oggetto la coartazione del soggetto passivo per conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, senza che alcun rilievo assuma invece il motivo dell’azione criminosa e cioè la spinta a delinquere che ha mosso il reo a porre in essere la condotta delittuosa. Tali essendo i principi in tema di movente, deve certamente essere escluso che l’interesse proprio del terzo concorrente nel fatto di cui all’art. 393 cod.pen. che vale a trasformare l’azione nella più grave condotta di estorsione possa essere individuato nel solo movente della condotta; viceversa deve affermarsi che l’interesse del terzo deve corrispondere ad un ingiusto profitto con altrui danno e cioè agli elementi costitutivi del delitto di estorsione altrimenti mancanti nella fattispecie di esercizio arbitrario.

Applicando il principio sopra esposto al caso in esame, deve sottolinearsi come la circostanza cui la corte di appello ha attribuito valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica più grave ai sensi dell’art. 629 cod.pen., non può avere l’effetto attribuitole dalla corte di merito, proprio perché, al più, costituente il movente dell’azione; invero, la somma di 5.000 € cui viene fatto riferimento nella stessa prospettazione della corte di appello, non fu mai oggetto di richiesta nei confronti dei conduttori dell’immobile, vittime della azione illecita, e viene anzi raffigurata dalla stessa corte di merito come “il provento di un eventuale mandato loro conferito dalla proprietaria dell’immobile al fine di agevolarne la vendita”; così che, come esattamente e puntualmente rilevato nei ricorsi, la stessa rappresentava una possibile ma assolutamente remota e futura possibilità di guadagno, e non anche l’oggetto di una precisa pattuizione tra proprietari ed esecutori materiali dell’illegittimo sfratto, che comunque non poteva valere a determinare la più grave qualificazione giuridica. Difatti, è bene precisare che tale essendo la ricostruzione dei fatti, di tale importo di € 5000,00 non vi è traccia neppure quale oggetto di un preciso accordo tra proprietari ed esecutori materiali ed alla stessa, peraltro, alcun cenno viene fatto nell’imputazione così che, come rilevato dai difensori dei ricorrenti, la ricostruzione del giudice di appello attribuisce valore decisivo ad un elemento di fatto mai oggetto di rituale contestazione. Sul punto, pertanto, l’impugnata pronuncia deve essere annullata, avendo attribuito valore-rilievo decisivo ad un possibile guadagno per effetto dell’azione illecita, che, oltre a non essere mai stata contestato, non può valere da solo a qualificare il fatto ex art. 629 cod.pen. se non risulta accertato che l’interesse proprio ed ulteriore oggetto dell’azione del terzo sia stato raffigurato al debitore ed abbia costituito un ingiusto profitto e non, invece, il possibile movente dell’azione dei due ricorrenti, terzi esecutori rispetto ai proprietari nel cui interesse agivano.

4. Tali conclusioni impongono poi ulteriori considerazioni circa l’ambito esplorativo del futuro giudizio di rinvio. Ed invero, può essere affermato che le Sezioni Unite Filardo, nella citata sentenza, hanno stabilito che ove il terzo abbia agito per la realizzazione di un interesse legittimo del creditore risponde del delitto di esercizio arbitrario, viceversa il fatto va qualificato come estorsione; tuttavia, differente è il caso in cui il creditore abbia raffigurato al terzo la tutelabilità di un proprio diritto ed il terzo abbia agito nella esatta convinzione di tutelare detta posizione giuridica in realtà non esistente. Tale particolare condizione non risulta essere stata presa in considerazione dalle Sezioni Unite che hanno sempre presupposto, nella ricostruzione completa della fattispecie, l’esatta coincidenza della rappresentazione della realtà sottesa al creditore ed al terzo incaricato dell’azione materiale. A fronte di tale situazione, che certamente costituisce la regola, può invece avvenire che la pretesa giuridica del titolare non sia fondata e, tuttavia, la stessa sia stata rappresentata come tale al terzo esecutore materiale. In detti casi non può escludersi la possibile qualificazione giuridica dei fatti in capo al terzo quale esercizio arbitrario proprio perché lo stesso ha agito nella convinzione dell’esercizio di un diritto in capo al titolare-mandante e cioè con il dolo tipico dell’art. 393 cod.pen.. Del resto è la stessa disciplina positiva a prendere in considerazione il caso del delitto attuato a seguito di una falsa rappresentazione della realtà; ed invero gli art. 47 e 48 cod.pen. stabiliscono la disciplina da applicare nel caso in cui l’agente ponga in essere la condotta sulla base di una falsa rappresentazione del reale; invero, l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità ai sensi dell’art. 47 primo comma cod.pen. e, tuttavia, non esclude la punibilità per un fatto diverso (comma 2 art. 47 cod.pen.). Ai sensi del successivo art. 48 cod.pen. ove l’errore sul fatto è determinato dall’altrui inganno, del fatto più grave risponde il soggetto istigatore.

A tale proposito la giurisprudenza della Corte di cassazione ha affermato che non ricorre la fattispecie del così detto ‘concorso anomalo’ di cui all’art. 116 cod. pen., bensì quella prevista all’art. 48 cod. pen. nel caso in cui si accerti che i concorrenti non abbiano avuto ab origine un accordo criminoso comune – inteso come convergenza delle volontà dei soggetti in concorso – ed il reato sia stato realizzato in conformità della reale intenzione di un concorrente dissimulata all’altro; nella specie, la Corte ha escluso la responsabilità a titolo di concorso ai sensi dell’art 116 cod. pen. nel reato di traffico di stupefacenti, nel comportamento di un soggetto che, avendo offerto la propria collaborazione per l’importazione in Italia di merci in violazione di disposizioni doganali, quali diamanti e -pelli di rettile, aveva invece trasportato cocaina per errore determinato dall’inganno dell’altro concorrente (Sez. 6, n. 15481 del 20/01/2004, Rv. 229240 – 01). In motivazione si precisa che: “non ricorre la fattispecie di cui all’art. 116 c.p. là dove si accerti…. per un verso, che i due concorrenti non abbiano avuto ab origine un “accordo criminoso comune”, inteso come convergenza delle volontà dei soggetti in concorso, di modo che il programma dell’uno sin dall’inizio fu diverso da quello dell’altro e ciò, si pone come fatto del tutto eccezionale che incide sull’elemento soggettivo della fattispecie concorsuale e rivela, in concreto, la mancanza di un nesso psichico, come richiesto dalla sentenza n. 42 del 1965 della Corte costituzionale. E, per altro verso, si escluda, altrimenti si configurerebbero gli elementi costitutivi del concorso ex art. 110 c.p., l’accettazione del rischio di commettere anche un reato diverso da quello voluto. Nel caso in cui non vi sia stato un comune accordo e il delitto non sia stato commesso da un concorrente in difformità ed oltre i limiti del programma criminoso concertato, bensì realizzato in conformità della sua reale intenzione dissimulata all’altro concorrente, per quest’ultimo è integrata la fattispecie di cui all’art. 48 c.p. dell'”errore determinato dall’altrui inganno”. Tale fattispecie, di carattere generale anch’essa, esclude la punibilità del soggetto per la commissione di un fatto diverso da quello in realtà voluto e commesso, lasciando permanere la responsabilità soltanto allorché la condotta realizzata integri un delitto colposo. In virtù del disposto dell’art. 48 c.p., più propriamente applicabile al caso in esame, l’autore dell’inganno che volle e ha, poi, commesso il delitto, risponde del fatto-reato secondo il titolo per il quale sarebbe stato chiamato a risponderne l’altro concorrente, autore materiale del fatto, e, cioè, non in base ad una forma di concorso nel reato, ma ad una forma di reità mediata, che alla punibilità dell’autore materiale, esclusa per difetto dell’elemento psicologico – e che, per tal motivo, rende inconcepibile un “comune accordo criminoso” – si sostituisce quella di colui che ha posto in essere la condotta in concreto voluta e realizzata. L’errore determinato dall’altrui inganno è tale da escludere in concreto la sussistenza di un rapporto di causalità psichica nel senso che il reato diverso e più grave commesso dal compartecipe possa rappresentarsi alla psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto”.

In tali casi, quindi, ove l’agente abbia posto in essere l’azione incriminata sulla base della falsa rappresentazione della realtà determinata da altrui inganno, del reato più grave risponde l’istigatore autore dell’inganno e del fatto meno grave risponde l’esecutore materiale ai sensi del citato secondo comma dell’art. 47 cod.pen.. Appare pertanto evidente che ove al terzo esecutore materiale dell’azione violenta o minacciosa sia stato rappresentato un diritto tutelabile in capo al creditore-istigatore dell’azione, lo stesso può rispondere del più lieve delitto di cui all’art. 393 cod.pen. ed il creditore, invece, risponderà di estorsione. Invero l’esecutore materiale in detti casi agisce con il dolo tipico dell’art. 393 cod.pen. in quanto ritiene di agire per l’esecuzione del diritto del creditore mentre questi, sapendo che l’azione non è esercitabile, che alcuna tutela giudiziale gli compete, ha il dolo dell’estortore; si verifica cioè che la partecipazione al fatto di reato di due soggetti, determina, per effetto dell’inganno di uno nei confronti dell’altro, la differente qualificazione giuridica del fatto, come previsto dalla disciplina del codice penale in tema di errore.

E così nel caso in cui il proprietario locatore abbia incaricato un terzo di sfrattare con violenza e minaccia il conduttore, rappresentando al terzo medesimo l’inesistenza o comunque l’invalidità del titolo per il possesso dell’immobile, l’esecutore materiale dell’azione, che agisce nella convinzione di esercitare il diritto del proprietario, potrà rispondere ex art. 47 secondo comma cod.pen. del delitto di cui all’art. 393 cod.pen., mentre, il proprietario, ove attuatore dell’inganno, risponderà viceversa ex art. 48 cod.pen. del più grave delitto di estorsione, avendo il dolo tipico dell’art. 629 cod.pen., perché consapevole del danno altrui e del proprio ingiusto profitto.

L’applicazione dei sopra esposti principi al caso in esame, impone perciò verificare un tema che risultava già proposto con i motivi di appello, mai approfondito adeguatamente dalla corte di merito, e cioè quello di ricostruire compiutamente i fatti per accertare se T. e M. agirono nei confronti dei conduttori persone offese, sulla base della falsa rappresentazione della realtà loro raffigurata dai proprietari dell’immobile, dell’abusiva occupazione dello stesso. Escluso il rilievo decisivo del movente che può avere mosso T. e M. ad agire, secondo le osservazioni già svolte al punto 3 della presente motivazione, si riespande quale elemento decisivo l’analisi della situazione soggettiva sottesa all’azione degli stessi, e cioè se essi appaiono avere agito nella errata rappresentazione dell’inesistenza di qualsiasi titolo delle persone offese ad occupare quell’appartamento ovvero se avessero anch’essi, al momento dell’azione criminosa, la consapevolezza dell’esistenza del titolo locatizio che legittimava la permanenza all’interno dell’immobile. Nel primo caso, invero, gli odierni ricorrenti potrebbero essere chiamati a rispondere soltanto del delitto di esercizio arbitrario mentre, nel secondo, concorrerebbero nel fatto estorsivo del proprietario.

5. Va precisato infine che la possibilità di una differente qualificazione giuridica dei concorrenti nel medesimo fatto, frutto del presente giudizio di annullamento, non deve sorprendere essendo fattispecie già oggetto di approfondita analisi da parte della giurisprudenza e, soprattutto, della dottrina. In relazione agli interventi giurisprudenziali si segnalano innanzi tutto i casi del concorso in autoriciclaggio, del concorso nel delitto di evasione, di più autori delle diverse fattispecie previste dall’art. 73 DPR 309/90; in relazione al primo dei suddetti casi si è affermato da parte di questo giudice di legittimità come in tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell’autore del reato – presupposto delle condotte indicate dall’art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell’intraneus (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Rv. 272652 – 01); nell’affermare detto principio la predetta pronuncia sottolineava come “la nuova incriminazione è  stata concepita, in ossequio agli obblighi internazionali gravanti pattiziamente sull’Italia, essenzialmente, se non unicamente, al fine di colmare la lacuna riguardante l’irrilevanza penale delle condotte di c.d. “auto riciclaggio”, poste in essere dal soggetto autore di (o concorrente in) determinati reati presupposto, che il legislatore ha ritenuto di individuare nei soli delitti non colposi (art. 648- ter.1, comma 1, c.p.), come previsto anche in tema di riciclaggio…”; pertanto: “nel rispetto della ratio che ha ispirato l’inserimento nel codice penale dell’art. 648-ter.1 c.p., ritiene il collegio che il soggetto il quale, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648-ter.1 c.p., continui a rispondere del reato di riciclaggio ex art. 648-bis c.p. (ovvero, ricorrendone i presupposti, di quello contemplato dall’art. 648-ter c.p.) e non di concorso (a seconda dei casi, ex artt. 110 o 117 c.p.) nel (meno grave) delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1.c.p. Nel predetto caso, soltanto l’intraneus risponderà del delitto di autoriciclaggio”. Proprio prendendo in considerazione il tema in analisi si aggiungeva che: “La diversificazione dei titoli di reato in relazione a condotte lato sensu concorrenti non deve meravigliare, non costituendo una novità per il sistema penale vigente, che ricorre a questa soluzione in alcuni casi di realizzazione plurisoggettiva di fattispecie definite dalla dottrina “a soggettività ristretta”. In tema di concorso in evasione e procurata evasione una risalente pronuncia ha affermato come l’art 386 del codice penale, punendo al primo comma colui che procura o agevola l’evasione di una persona legalmente arrestata o detenuta, prevede un delitto che può concretarsi in due distinte forme di attività, la prima diretta allo svolgimento di un ruolo determinante e di primo piano nella preparazione immediata o nell’esecuzione dell’evasione e la seconda intesa invece a favorire la fuga, predisponendo i mezzi opportuni o assicurando gli aiuti necessari allo scopo. Poiché in entrambe le forme l’attività delittuosa deve essere finalizzata all’evasione della persona arrestata o detenuta, il delitto in questione consiste in un fatto di compartecipazione al reato di evasione, di cui all’alt 385 cod. pen., che la legge ha incriminato autonomamente, con la previsione di una specifica figura di reato, allo scopo di punirlo più gravemente, almeno di norma, di quanto non avverrebbe con l’applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato (Sez. 1, n. 886 del 05/07/1979 (dep. 22/01/1980 ) Rv. 144052 – 01). Ne deriva affermare che il soggetto che concorre nel fatto di evasione altrui non risponde di concorso ex art. 110 del codice penale nel reato di cui all’art. 385 cod.pen. bensì dell’autonomo e più grave reato di cui al successivo art. 386 cod.pen.. Analogamente si è affermato in tema di concorso di più soggetti nelle attività di cessione o spaccio di sostanze stupefacenti; secondo un indirizzo di questa Corte di cassazione invero in tema di concorso di persone nel reato di cessione di stupefacenti, il medesimo fatto storico può essere ascritto ad un imputato ai sensi dell’art. 73, comma 1, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e ad un altro a norma dell’art. 73, comma 5, del medesimo D.P.R. qualora il contesto  complessivo nel quale si collochi la condotta assuma caratteri differenti per ciascun correo (Sez. 3, n. 16598 del 20/02/2020, Rv. 278945 – 01); in motivazione la suddetta pronuncia approfondisce il tema della differenziazione delle qualificazioni giuridiche specificando che: “tale ricostruzione trova conferma nel tenore dell’art. 117 cod. pen. – disposizione diretta ad omogeneizzare, nel senso di un potenziale aggravamento, la posizione dei concorrenti nel reato – che non fissa una generale equiparazione fra le posizioni dei concorrenti in caso di mutamento del titolo del reato per taluno di loro, ma limita l’equiparazione al caso in cui il mutamento del reato sia determinato dalle condizioni o dalle qualità personali del colpevole, o dai rapporti fra il colpevole e l’offeso. Al di fuori di tali casi, dunque, deve ritenersi che l’equiparazione in questione non operi e che i concorrenti nello stesso fatto possano risponderne a diverso titolo. Analoga funzione aggravatrice è svolta dall’art. 116 cod. pen., che non a caso, in relazione al reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, pur prevedendo per tutti lo stesso trattamento, stabilisce una diminuzione di pena per chi abbia voluto il reato meno grave. Dunque, le due disposizioni appena citate risultano escludere, in linea generale, che l’istituto del concorso di persone nel reato possa dare luogo ad una “mitigazione” della responsabilità penale, e rendono ragionevole, in caso di loro inapplicabilità, correlare il titolo della stessa, per ciascun agente, al fatto al medesimo riferibile oggettivamente e soggettivamente”.

In dottrina il tema viene ampiamente sviluppato ed approfondito sotto il profilo del principio costituzionale della responsabilità personale che troverebbe deroghe non consentite nelle affermazioni del concorso nel medesimo reato da parte di tutti i soggetti concorrenti indipendentemente dalle posizioni soggettive di ciascuno di essi; ad essere fortemente criticato è l’assioma dell’equivalenza causale del contributo di tutti i concorrenti ritenuta espressione “letteralmente antitetica ai principi di tipicità e di responsabilità personale, atteso che essa, anziché attribuire rilievo alle loro peculiarità tipiche, tende appunto a livellare i contributi di tutti i correi, senza darsi pena di ritagliare in capo a ciascuno un rimprovero autenticamente appropriato e personale…..”; e sempre in termini critici lo stesso autore ha aggiunto che l’adesione alla teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale e dell’equivalenza degli apporti causali di più soggetti determina: “la conseguenza di ritenere integrato il contributo punibile in presenza di qualsiasi apporto, anche se diretto a sostenere non già l’intero fatto illecito, ma soltanto qualche suo aspetto, sebbene assolutamente specifico e marginale”.

Altri autori hanno così espressamente affermato: “che si concorre nel fatto e non nel reato e alla fine, come si vede, il dogma dell’unità del reato concorsuale si riduce al principio di medesimezza del fatto, inteso nella sua dimensione lesiva ovvero come accadimento materiale penalmente significativo. Non solo: tale identità del fatto non implica necessariamente l’identità del reato di cui sono chiamati a rispondere i concorrenti, dovendosi ammettere la pluralità dei titoli di reato in correlazione all’elemento psicologico di ciascun partecipe”.

Infine, altri esponenti della dottrina, in una prospettiva de iure condendo di commento ai progetti di modifica del codice penale hanno affermato che: “in una dogmatica corretta, nel concorso di persone dobbiamo riconoscere pluralità di reati.. .poiché .non sembra giusto collegare il significato sociale e umano di un fatto alla sua sola dimensione materiale…, deve ritenersi possibile che in un concorso di persone di più soggetti che pongono la stessa realizzazione comune siano chiamati a rispondere per titoli diversi …. a maggior ragione la possibilità di chiamare i compartecipi rispondere per titoli diversi dovrà essere ammessa quando taluno dei soggetti non ha voluto il fatto realizzato dagli altri”.

L’analisi della interpretazione dottrinale e giurisprudenziale ha quindi permesso di evidenziare una molteplicità di argomenti che appaiono prospettare l’ipotesi ricostruita nel presente procedimento di diversità di titoli di reato in un caso di concorso nel medesimo fatto e ciò, in particolare, in virtù dell’applicazione della disciplina positiva dettata dall’art. 48 cod.pen.; la possibile differente qualificazione giuridica per effetto della condotta del terzo istigatore o mandante nei confronti dell’esecutore materiale dell’azione estorsiva, terzo rispetto al rapporto obbligatorio, rimane pertanto prospettiva possibile ed il cui ambito applicativo andrà valutato nel giudizio di rinvio, verificandosi la dimensione soggettiva degli odierni ricorrenti all’atto della condotta minacciosa e violenta di sfratto.

6. Alla luce delle predette considerazioni, pertanto, il giudice del rinvio dovrà procedere ad analizzare tale profilo soggettivo delle diverse condotte poste in essere dai proprietari mandanti dell’azione e dagli odierni ricorrenti quali esecutori materiali. Vanno pertanto formulati i seguenti principi di diritto;

  • in caso di concorso del terzo nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’interesse proprio del terzo che vale a determinare la più grave qualificazione giuridica ai sensi dell’art. 629 cod.pen. deve essere individuato in un ingiusto profitto con danno altrui senza che rilievo assuma il movente dell’azione criminosa;
  • ai sensi della disciplina dettata dagli artt. 47 e 48 cod.pen. ove il terzo esecutore materiale abbia posto in essere l’azione incriminata sulla base della falsa rappresentazione della realtà determinata dall’inganno perpetrato dal creditore o dal titolare del diritto, del reato più grave, l’estorsione, risponde l’istigatore autore dell’inganno (ex art. 48 cod.pen.) e del fatto meno grave, l’esercizio arbitrario, risponde l’esecutore materiale ai sensi del secondo comma dell’art. 47 cod.pen..

    P.Q.M.

    Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Palermo per nuovo giudizio.

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